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Capitolo 3

AMY

La mattina seguente mi risveglio con un cerchio alla testa. Mi sento uno straccio. Della serata mi ricordo poco e niente, ho le idee confuse. Controllo rapidamente la sveglia e quasi balzo giù dal letto.

Sono in ritardo.

Non posso permettermi di perdere il mio primo appuntamento di lavoro, quindi mi fiondo in bagno e apro il rubinetto della doccia. L’acqua calda lava via il mio senso di stordimento, ma il cerchio alla testa rimane. Uscita dalla doccia mi asciugo, indosso un paio di jeans e una maglietta, e mi trucco meticolosamente. Il correttore mi copre le occhiaie da sbornia e mi dona un’aria apparentemente normale. Poi butto giù un analgesico con un bicchiere d’acqua e afferro il mio zainetto rimasto abbandonato sulla sedia.

Sono pronta per uscire.

Fuori, New York è immersa nel suo caos apparente. Le auto sfrecciano lungo la strada coi loro clacson assordanti, aumentando il mio mal di testa. Mi dirigo verso la metro, scendo i gradini di corsa, controllando l’orologio ogni cinque minuti.

Forza, Amy. Puoi farcela.

La metro arriva in orario. Mi catapulto all’interno di un vagone pieno zeppo di gente che probabilmente è diretta al lavoro proprio come me. L’odore di corpi sudati mi aggredisce le narici, ma faccio finta di niente. Mi infilo le cuffie nelle orecchie e seleziono sul display dello smartphone una delle mie canzoni preferite. Per un po’ la musica mi distrae, isolandomi dal resto del mondo. Per poco non manco la fermata, ma alla fine riesco a scendere e mi dirigo di corsa verso l’indirizzo fornitomi da Susan: Park Avenue 157. Mi infilo in un palazzo enorme come quello in cui si trovava la Bella Agency e prendo per un pelo l’ascensore fermo al pianterreno.

Lo studio del fotografo è all’ultimo piano. Entro guardandomi attorno intimorita, finché una delle assistenti non viene ad accogliermi. «Ciao, io sono Charlotte. Sei in ritardo».

«Sì, scusami. Non mi è suonata la sveglia stamattina».

Lei mi lancia un’occhiataccia, segno che non si è bevuta affatto la bugia che le ho rifilato. Tuttavia, non commenta. Mi introduce in un camerino e mi mostra i capi che devo indossare: una guêpière di pizzo nera, un perizoma dello stesso colore e autoreggenti di seta.

Non riesco a evitare di arrossire.

«Ehm, devo indossare proprio questi?»

«Sì, sbrigati. TT oggi è nervoso più del solito».

Ecco, appunto.

Cerco di spogliarmi più in fretta che posso, evitando di pensare che dovrò presentarmi di fronte al grande Tobias Turner praticamente nuda. Una volta ho fatto un servizio fotografico per una casa di costumi da bagno, ma era molto meno imbarazzante.

Appena vestita – se così si può dire – vengo pettinata e truccata. L’immagine che mi restituisce lo specchio sembra quella di un’altra me, stento a riconoscermi.

Sul serio sono io la ragazza conturbante, coi lunghi capelli castani sciolti sulle spalle e le labbra color rosso porpora?

Mentre mi avvio lungo il corridoio, diretta nello studio in cui lavora TT, le ginocchia mi tremano. Il fatto che ai piedi mi abbiano fatto mettere un paio di décolleté tacco 12, di certo non aiuta. Mi sento instabile, impacciata.

La porta si spalanca e la voce tonante di Turner mi colpisce come un pugno allo stomaco. «Alla buonora! Dove cazzo eri finita?».

Non so se si stia rivolgendo a me o alla sua assistente; il fotografo mi dà le spalle ed è chino sulla sua macchina fotografica. Nello studio c’è un divanetto stile Luigi XV su cui sono puntate le luci. A un tratto lui si gira, mi guarda e io vorrei morire.

L’uomo che mi sta fissando con un paio di occhi di ghiaccio è Mr. Stronzo-Ma-Bellissimo. Lo stesso che ieri notte ho baciato appassionatamente, per poi fuggire via a gambe levate. Lo vedo sussultare, ma questo è l’unico segno che rivela il fatto che mi ha riconosciuto.

«Sei in ritardo, e io odio i ritardatari. Non te l’hanno detto?».

Mi mordo piano il labbro e scuoto la testa. «No, io…».

«Siediti sul divano e cominciamo. Non ho tempo da perdere».

Adesso sto tremando sul serio e non perché abbia freddo, sebbene svestita così avrebbe anche un senso. Mi siedo come mi è stato ordinato, ma mi sento come un blocco di marmo; non riesco a smettere di pensare a Tobias Turner e ai suoi occhi ferini fissi su di me.

«No, non così. Sei troppo tesa. Ti voglio languida, rilassata, come dopo il sesso».

Queste ultime parole mi fanno avvampare; ho come l’impressione che le mie guance vadano a fuoco.

«Che c’è? Il riferimento al sesso ti imbarazza?». TT mi osserva, i suoi occhi sono come lame d’acciaio. Poi ride. Una risata di scherno, senza dubbio. «Allora, ragazzina ti vuoi impegnare? Non abbiamo tutto il giorno a disposizione».

«Mi chiamo Amy», rispondo con un pizzico di insolenza. Non è da me reagire in questo modo, ma la maleducazione di quest’uomo mi irrita.

«Ascolta, ragazzina». La sua voce si fa melliflua. Forse lo preferivo incazzato. «Vuoi farmi il favore di metterti in posa? Appoggia la schiena allo schienale, sì… così. Adesso, distendi il braccio sinistro. Ecco, brava. Allarga le gambe».

Continua a impartire ordini per un po’ e io obbedisco, o credo di farlo. Sembra però che i miei sforzi non siano abbastanza per lui.

«Ma cosa cazzo fai?», sbotta a un tratto. È nervoso. Si passa una mano tra i corti capelli neri, scompigliandoli. Poi mi incenerisce di nuovo con lo sguardo. «Ho detto languida, rilassata. Sembra che ti abbiano infilato una scopa in culo!».

Come faccio a rilassarmi, se mi urla dietro in continuazione? Vorrei dirglielo, ma dalla gola non mi esce una sola sillaba.

«Cos’è? Il tuo primo servizio fotografico? Mi hanno mandato una cazzo di novellina, non riesco a crederci».

«Non è il mio primo servizio. Ho già lavorato come modella in Minnesota, da dove vengo». Alla fine ritrovo la voce. Non so come, ma ci riesco. I suoi occhi si fanno di brace.

«Be’, se non sei una novellina, impegnati di più. Non ti sto chiedendo molto».

Cerco di fare del mio meglio, ma ancora non è abbastanza. Vedo TT stringere gli occhi in due fessure di disapprovazione.

«Basta, non ho tempo da perdere. Rivestiti e vattene fuori da qui».

«Co-come?». Inizio a balbettare come una stupida. Sento gli occhi che mi pizzicano, ma riesco a tenere a bada le lacrime.

Non voglio piangere davanti a lui.

Turner getta via la macchina fotografica, con un gesto spazientito. «Ho detto fuori! Che c’è? Sei anche sorda?».

Mi alzo tremante. Alla fine una lacrima mi riga la guancia e scappo via triste e umiliata. Non mi sono mai sentita così. Fa male. Dannatamente male.

Arrivata in camerino mi rivesto in fretta; voglio uscire immediatamente da qui. Le lacrime mi offuscano la vista e impiego più del tempo necessario. Cerco il mio zainetto senza trovarlo. Alla fine lo vedo appoggiato su una sedia, lo afferro e me lo metto in spalla.

Proprio mentre sto uscendo entra Charlotte, lo sguardo rammaricato. «Mi dispiace», dice anche se non è sua la colpa. «Oggi TT aveva davvero un diavolo per capello».

Io scuoto la testa. «Non importa». Ma invece importa eccome. Vorrei andare a nascondermi, fare ritorno a casa e chiudermi nella mia stanza per il resto dei miei giorni. Charlotte sembra capirmi al volo e mi trattiene per un braccio. «Aspetta, non puoi uscire così. Hai tutto il trucco sbavato. Ti do una mano a ripulirti».

Lancio distrattamente uno sguardo allo specchio ed effettivamente ho l’aspetto di un panda. Ok, la mia umiliazione è completa. Lascio che Charlotte mi aiuti, tanto peggio di così non poteva andare.

«È sempre così?», chiedo dopo un po’, quando il silenzio diventa imbarazzante. «TT intendo».

Charlotte si volta e mi guarda, scuote la testa con rassegnazione. «Dipende. Come ti ho detto oggi era più nero del solito. Comunque non è facile lavorare con lui, pretende sempre il massimo. Proprio per questo è il migliore».

Annuisco come se avessi capito cosa intende, ma in realtà non ho capito proprio niente. Mi chiedo cosa ho sbagliato.

«Ascolta, mi sei simpatica e voglio darti un consiglio». Charlotte mi prende una mano, la stringe. «Quando sei davanti all’obiettivo svuota la mente, non pensare».

«Ci proverò». Saluto con un sorriso forzato e me ne vado.

Quando arrivo in strada vedo Turner che cammina su e giù sul marciapiede, una sigaretta ficcata in bocca. Mi vede, ma non batte ciglio. Non accenna nemmeno a scusarsi, il bastardo. Non so come trovo il coraggio, ma mi avvicino. Gli punto un dito contro.

«E comunque sei uno stronzo», dico con astio. «Un dannatissimo stronzo».

Lui inarca un sopracciglio. «Ah, sì? È questo che pensi?»

«Esattamente questo, sì».

«Non ti sfiora neppure il pensiero di non essere adatta a questo lavoro, vero?»

«Io…». Gli occhi tornano a pizzicare; tiro su col naso.

«Eri rigida come un manichino, e a me serviva sensualità. Sai almeno di cosa parlo?».

Mi mordo il labbro, ma non oso dire nulla.

Lui getta la sigaretta, la spegne col piede e impreca sottovoce. «Ho persino cercato di aiutarti, ti ho dato le indicazioni giuste. Ma tu niente, non mi hai nemmeno ascoltato».

«Le indicazioni giuste?». Adesso quasi mi scappa da ridere. «Non hai fatto altro che urlare».

«Ti ho suggerito di rilassarti, come dopo una notte di sesso. Ti sarebbe bastato pensare al tuo ragazzo, a quando fate l’amore. Ce l’hai un ragazzo, no?»

Torno a stuzzicarmi il labbro. Di questo passo lo farò sanguinare. «Ce l’avevo, in Minnesota. Ma ora non so… Abbiamo litigato prima della mia partenza».

«Senti, non voglio sapere i cazzi tuoi. Non mi interessano. La prossima volta però, se vuoi fare un buon lavoro, pensa al sesso. Dammi retta».

«Io non so come sia il sesso. Non l’ho mai fatto». Non so perché ne parlo con lui, adesso. È una cosa che non ho mai confessato a nessuno. Nemmeno alla mia migliore amica.

TT sgrana gli occhi, aggrotta la fronte. «Stai scherzando?»

«No».

«Sei una cazzo di vergine?». Scuote la testa e ride. Poi fa per allontanarsi. «Ascolta, non lavoro con l’asilo infantile, ok?».

Se prima mi sentivo umiliata, adesso sono annientata. Totalmente. Lo fisso con odio. «Stai cercando di dirmi che non posso fare la modella perché non ho mai scopato?». Sono talmente fuori di me da diventare scurrile. Non lo sono mai.

Lui si ferma, torna a guardarmi con curiosità. «Ti sto dicendo che non puoi fare la modella per me. Te lo ripeto. In quello scatto avevo bisogno di sensualità, dovevi trasudare sesso. Se non sai nemmeno di cosa stiamo parlando, non sei la persona adatta a me».

«Puoi insegnarmi. Imparo in fretta». Lo dico in tono di sfida, forse nemmeno rendendomi conto di cosa sto facendo.

Lui ride di nuovo. «Sono un fotografo, è questo il mio lavoro. Se hai bisogno di qualcuno che deflori vergini, rivolgiti a qualcun altro».

«Ho bisogno di questo lavoro. Fare la modella è il mio sogno, sono disposta a tutto per realizzarlo. E tu puoi insegnarmi».

Si volta di nuovo scuotendo la testa e fa per rientrare all’interno dell’edificio, ma sul portone si blocca. Mi guarda. «Stai parlando sul serio?». Sembra stupito. E combattuto, anche.

Io annuisco.

«Passa da me nel fine settimana, fatti dare l’indirizzo da Charlotte». Mi fissa intensamente, poi mi punta un dito contro. «Ma niente cazzate. È solo lavoro, ficcatelo bene in testa».

«Certo».

Si passa una mano tra i capelli, infine sparisce all’interno del palazzo. Così, senza nemmeno salutare. Io resto a fissare il vuoto per un istante, il cuore che sembra volermi schizzare fuori dal petto.

Cosa cazzo ho combinato?

Non riesco a darmi una risposta.

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