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Capitolo 2

AMY

«Ho sempre desiderato sfilare in passerella, sono pronta a tutto pur di realizzare il mio sogno». Ho le mani sudate e la bocca secca, mentre parlo di me al direttore dell’agenzia. È un uomo alto e magro, leggermente stempiato e con un paio di baffetti alla Charlie Chaplin. Ha l’aria severa, ma è sicuramente più educato del tipo incontrato in ascensore.

Lui gioca con il tagliacarte e mi ascolta attento; lo vedo scuotere lentamente la testa. «Mi dispiace infrangere i suoi sogni, ma non credo sia adatta alle sfilate di moda. Però potrebbe cominciare con qualche servizio fotografico. Di certo possiamo trovarle qualcosa di adatto».

Comincio a mordicchiarmi le labbra, un vizio che non riesco a tenere sotto controllo quando sono nervosa. «Che tipo di servizi fotografici?»

«Si tranquillizzi, è tutta roba seria». Mr. Johnson sembra leggermi nel pensiero. Non ho fatto tanta strada per finire a posare per foto di nudo o chissà cos’altro. Ho i miei principi. Ciononostante, non sono pronta a rinunciare a una promettente carriera come modella. Se per farmi conoscere dovrò accettare qualche compromesso, va bene. Lo farò.

La porta si spalanca all’improvviso e l’assistente di Mr. Johnson torna con le fotocopie che lui le aveva chiesto. La vedo avvicinarsi con fare cospiratorio per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi si voltano entrambi a guardarmi.

«È fortunata, miss Parker. Abbiamo un ingaggio per lei».

Sgrano gli occhi, incredula. «Davvero?».

«Sì, sembra che il migliore fotografo di New York abbia urgente bisogno di una modella, e lei fa al caso suo».

«Il migliore fotografo di New York?», ripeto come un’imbecille.

«Tobias Turner, ma nell’ambiente è noto semplicemente come TT».

Per poco non svengo.

Ho sentito parlare moltissimo di lui, ha lavorato per le case di moda più importanti del mondo. I suoi servizi sono apparsi su riviste di alto livello come Vogue, Cosmopolitan, Elle… è semplicemente grandioso.

Le mie labbra si allargano in un sorriso radioso. «Ma è fantastico!», esclamo euforica. «Quando devo iniziare?»

«Domani mattina. Susan le farà sapere dove presentarsi e tutti i dettagli. Non mi faccia fare brutte figure, lavorare con TT non è facile, ma è senz’altro un gran privilegio».

«Ne sono convinta». Mi alzo in piedi e stringo la mano di Mr. Johnson con una grinta che non mi appartiene. Mi sento galvanizzata.

Quando esco dal suo ufficio cammino come se galleggiassi su una nuvola, a cento metri da terra. Salgo sull’autobus con un sorriso ebete, e per poco non scendo alla fermata sbagliata. Impiego un po’ a trovare la strada di casa. Ho preso una stanza in affitto che divido con un’altra ragazza nella zona di Brooklyn. La proprietaria è una signora simpatica, sulla sessantina. Ho l’impressione che ci farà un po’ da mamma durante il nostro soggiorno. La mia compagna di stanza, invece, è all’incirca mia coetanea, sui diciotto anni o giù di lì. Studia alla Columbia University e vuole diventare una giornalista. Sono sicura che faremo amicizia e che presto non mi sentirò più sola e sperduta in questa grande metropoli.

Non appena entro nella stanza, la sua voce allegra e vivace mi accoglie: «Ehilà, già di ritorno? Com’è andata la tua giornata?»

«Benissimo. Sono stata ingaggiata per un servizio fotografico importante».

«Già il primo giorno? Wow! Dobbiamo festeggiare, allora».

Rido e mi butto sul letto che cigola sotto il mio peso. «Amo New York, posso dirlo?».

Lei si unisce alla mia risata. «Certo che puoi, e l’amerai ancora di più dopo che ti avrò portato in giro per locali, stasera».

Mi tiro su di scatto, gli occhi sgranati. «Come hai detto?»

«Andiamo a folleggiare».

«Ehm, Ava… forse non è il caso».

«Perché no?».

«Non sono tipo da locali notturni, in Minnesota conducevo una vita molto tranquilla…».

Lei mi sorride e mi strizza l’occhio. «Un motivo in più per uscire. Ci divertiremo, vedrai».

Non ne sono così sicura. Sono sempre stata un’asociale cronica, detesto i posti pieni di gente. Mi sento sempre osservata e giudicata. Ma Ava non vuole sentire ragioni, e in men che non si dica mi ritrovo in un disco pub affollato, con un bicchiere in mano.

E non sono abituata agli alcolici.

Mi guardo attorno, un po’ intimorita dalle luci e dalla musica ad alto volume, poi a un tratto lo vedo.

L’uomo dell’ascensore. Mr. Stronzo-Ma-Bellissimo.

È in piedi davanti al bancone, con un drink in mano e un sorriso indolente sulle labbra carnose. Sta parlando con qualcuno, presumibilmente un amico. Ride reclinando leggermente la testa all’indietro, poi si gira e incontra il mio sguardo. Mi riconosce. Mormora qualcosa nell’orecchio del suo interlocutore e si allontana; lo vedo avvicinarsi e il mio cuore perde un battito.

Oh, mio Dio.

E adesso che gli dico?

«Che bizzarra coincidenza, la ragazza dell’ascensore». È lui a fare il primo passo. I suoi occhi mi studiano attenti e io mi sento di nuovo avvampare. «Non mi stai seguendo, vero?».

«Che cosa? No, certo che no!». Sono inorridita. Per chi mi ha preso? Mando giù l’intero contenuto del mio bicchiere dimenticando che è un alcolico ad alta gradazione. Tossisco e gli occhi mi si riempiono di lacrime.

Lui mi fissa divertito, l’ombra di un sorriso gli distende le labbra. «Vuoi un altro drink? Vieni, te lo offro io».

Dovrei dirgli che non reggo gli alcolici e che già la testa mi gira come se fossi sulle montagne russe, ma il mio orgoglio mi grida di tacere. Annuisco perché ancora non riesco a parlare, la gola mi brucia da impazzire.

Ci avviciniamo al bancone e lui solleva un braccio per attirare l’attenzione del barman, un ragazzo biondo con la pelle diafana. Sembra un albino. «Un altro Cosmopolitan?», mi chiede prima di ordinare.

Come ha fatto a capire cosa c’era nel mio bicchiere?

Annuisco ancora. In un batter di ciglia mi ritrovo davanti un altro bicchiere, pieno fino all’orlo di quella roba disgustosamente alcolica. Inizio a sorseggiarne un po’, solo per darmi un contegno da donna vissuta.

«Non sei di New York, vero?». Mr. Stronzo-Ma-Bellissimo torna a fissarmi intensamente e il mio stomaco fa una capriola.

«Come l’hai capito? Dall’accento?».

Scuote la testa ridendo. «Sembri spaesata». Ordina un altro drink per sé e inizia a sorseggiarlo. «Sei qui da sola?»

«Intendi a New York o in questo locale?».

«Entrambi».

«A New York sono venuta da sola, per lavoro. Ma qui sono con un’amica». Mi guardo attorno cercandola con lo sguardo, però non la trovo. Accidenti. «Non so dove sia finita», ammetto dopo un po’.

Lui sorride di nuovo. È ancora più bello quando lo fa, ha dei denti bianchissimi che risaltano sulla pelle abbronzata. «Ti va di ballare?».

Finisco di bere, poi annuisco per l’ennesima volta. Mi sento leggera, disinibita. Probabilmente è colpa dei Cosmopolitan. Ne avevo già bevuti due prima del suo arrivo, questo è il terzo.

Andiamo in pista e cominciamo a muoverci al ritmo di una musica indiavolata. È divertente, devo ammetterlo. All’inizio sono un po’ impacciata, ma poi mi sciolgo. Lo sconosciuto mi parla e io rido come una stupida. Ho voglia di divertirmi, di dimenticare che mi trovo in una città che non conosco, lontana dalla mia famiglia. E voglio dimenticare Lucas che mi ha fatto soffrire.

Senza accorgermene avvolgo le braccia intorno al collo di Mr. Stronzo-Ma-Bellissimo, muovo i fianchi contro i suoi e gli sfioro le labbra con le mie. Lo bacio a lungo. È come se non volessi più staccarmi dalla sua bocca. E lui mi asseconda. Mi afferra per la vita, mi stringe.

Quando il bacio finisce, torno a ridere. «Non smetterei mai di baciarti, hai delle labbra incredibili», gli dico. Non devo essere in me. Di solito non sono così sfacciata.

Lui si avvicina al mio orecchio. «È dai tempi delle scuole medie che non mi fermo ai baci», sussurra in un tono roco che mi fa inturgidire i capezzoli.

Rido ancora, più forte. «Spiritoso».

«Non sto scherzando».

Lo guardo, i suoi occhi incatenano i miei. Sono torbidi, con una luce peccaminosa che mi colpisce dritta allo stomaco. Come se mi fossi resa conto solo adesso di essermi spinta troppo in là, sussulto. Mi schiarisco la voce e mi allontano.

«Scusami, è stato uno sbaglio», affermo pentita.

Lui non risponde; continua a guardarmi come se intendesse spogliarmi con gli occhi. Lo spingo via e mi faccio largo tra la gente, un ammasso di corpi ondeggianti che mi soffocano.

Mi viene da vomitare.

La testa mi gira come una trottola impazzita, fatico a restare in posizione eretta. Poi un paio di braccia mi afferrano, sostenendomi. «Ehi, sei ubriaca, per caso?». È la voce di Ava.

Tiro un sospiro di sollievo. «Sei tornata? Non ti trovavo più». Un altro conato mi assale. «Ti prego, portami a casa».

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