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Capitolo 1

Il traffico di New York nell’ora di punta mi stordisce; scendo dall’autobus col naso per aria, senza riuscire a staccare lo sguardo dagli immensi grattacieli di Manhattan. Un passante mi urta, ma quasi non me ne accorgo, affascinata come sono da tutto ciò che mi circonda.

New York è così caotica. Così viva.

Controllo l’indirizzo sul biglietto da visita dell’agenzia e proseguo spedita lungo Lexington Avenue, finché non mi trovo davanti all’entrata di un elegante palazzo. Il portiere mi fissa con diffidenza e io gli rivolgo un sorriso intimorito.

«Mi scusi, sto cercando la Bella Agency».

«Quindicesimo piano, ascensore di sinistra», mi risponde lui senza battere ciglio. È un uomo di colore, alto e massiccio, fasciato in una divisa blu scuro con bottoni dorati. Sulla testa ha un cappello dello stesso colore della divisa, che gli nasconde in parte gli occhi.

Mi asciugo le mani sudate sui jeans e ringrazio, prima di entrare e dirigermi verso gli ascensori. Sono di nuovo con il naso per aria ad ammirare i lampadari di cristallo sul soffitto, quando qualcuno mi scontra in malo modo; la borsa mi scivola a terra e i miei oggetti personali si sparpagliano sul pavimento di marmo: un lucidalabbra, un pacchetto di fazzoletti, il portafoglio e – ahimè – persino una confezione di assorbenti. Li porto sempre con me per ogni evenienza.

Una mano indubbiamente maschile si protende ad afferrarli; sollevo lo sguardo e mi ritrovo a fissare un paio di occhi a metà tra il grigio e l’azzurro. «Questi devono essere suoi», dice mentre mi porge il pacchetto.

Io avvampo. Per un istante non riesco a muovermi né a respirare.

«Dovrebbe fare più attenzione», mi rimprovera lo sconosciuto mentre finisco di raccogliere tutte le mie cose, gettandole in borsa alla rinfusa. Lo vedo infilarsi in ascensore e solo allora mi ricordo che devo prenderlo anch’io.

«Aspetti!», mi protendo in avanti e quasi inciampo. Per fortuna riesco a entrare prima che le porte si chiudano, il cuore mi batte a mille all’interno della gabbia toracica.

L’uomo mi guarda di sottecchi, le braccia incrociate sul petto. Indossa un completo grigio e una camicia azzurrina, i cui primi bottoni sono aperti sul petto abbronzato.

Di nuovo mi manca l’aria.

«A che piano va?». Il suo tono è spazientito, rasenta la maleducazione. «Allora? Non ho l’intera mattinata a disposizione».

Brutto stronzo.

«Ehm, quindicesimo piano». Appena lo dico, lo sconosciuto aggrotta la fronte e mi scruta con maggiore curiosità. Ricambio il suo sguardo e sento qualcosa rimescolarsi nel mio stomaco.

È bellissimo.

Stronzo, ma bellissimo.

Capelli corti e neri, fisico asciutto… che sia anche lui un modello? Forse è per questo che è così incuriosito da me, ha capito dove sono diretta.

Mi mordo piano il labbro e il suo sguardo ferino si intensifica, diventa quasi pericoloso.

Continuando di questo passo, rischio di andare in iperventilazione. Per fortuna l’ascensore si ferma prima che possa fare un’altra pessima figura e le porte si riaprono con uno scampanellio.

«Quindicesimo piano, è arrivata», dice lo sconosciuto con una voce ruvida, leggermente roca.

«G-grazie!», balbetto. Le mie guance vanno a fuoco e io mi precipito fuori dall’ascensore come se una bestia feroce mi inseguisse. Non mi volto a guardare Mr. Stronzo-Ma-Bellissimo un’ultima volta, tuttavia continuo a sentire i suoi occhi fissi su di me, come due raggi laser piantati nella schiena.

TOBIAS

Non riesco a staccare gli occhi da quella ragazza. È graziosa, ma decisamente imbranata. Non riesco a capire se stia recitando una parte o se abbia davvero la testa fra le nuvole come dà a intendere.

Sorrido tra me e la seguo, non perché io sia uno stalker – intendiamoci – semplicemente siamo diretti nel medesimo posto: la Bella Agency. No, non sono un modello, sebbene possa sembrarlo. In realtà sono un fotografo. Il migliore sulla piazza. Nonché strapagato.

Questo fa di me anche un fottutissimo arrogante bastardo, non lo nascondo. Tutti mi temono, e io mi diverto un mondo a intimorirli. Con quella ragazza però è stato come sparare sulla croce rossa, sembrava già terrorizzata di suo.

Quando le è caduta la borsa per terra, seminando sul pavimento i suoi assorbenti, quasi mi scappava da ridere. Le sue guance si sono tinte di un colore a metà tra il porpora e il bordeaux.

Davvero imbarazzante.

Oltrepasso la porta a vetri dell’agenzia e lancio uno sguardo ombroso alla receptionist che in risposta si inumidisce le labbra. Sulle donne faccio questo effetto. Appena mi vedono, vorrebbero strapparsi le mutandine. Persino la ragazzina in ascensore è stata tentata. Molto tentata.

Ridacchio e mi avvicino spedito alla reception.

«Devo vedere Johnson», affermo appoggiando un fianco al bancone, con indolenza.

La receptionist – una biondina con le labbra rifatte – si tocca i capelli, li rigira tra le dita e poi si sistema una ciocca dietro l’orecchio. «Mr. Johnson è occupato, adesso. Ha un appuntamento?».

Deve essere nuova, altrimenti non mi avrebbe fatto questa domanda.

La osservo come se fosse uno scarafaggio. «Non ho bisogno di appuntamenti. Gli dica che Tobias Turner è qui».

Lei si inumidisce di nuovo le labbra, gli occhi che saettano dal mio volto alla porta dell’ufficio di Johnson, e ancora su di me. «Attenda un attimo». La vedo armeggiare con l’interfono e blaterare parole confuse. Quindi torna a guardarmi, il labbro inferiore che le trema impercettibilmente. «Ehm, Mr. Johnson la prega di scusarlo. Ha un colloquio con una nuova modella, sarà da lei appena si libera».

Sbuffo, ma non dico nulla. Tiro fuori dalla tasca della giacca il mio smartphone e faccio un paio di telefonate per ingannare l’attesa. Chissà se la nuova modella è la ragazzina che ho incontrato in ascensore.

Le labbra mi si tendono in un sorriso divertito.

Sono ancora col telefono in mano, quando l’assistente di Johnson esce dal suo ufficio. Incrocia il mio sguardo, sorride e mi si avvicina. Ho avuto una torbida relazione con lei un paio di anni fa, durata non più di un mese. Tutte le mie relazioni sono meteore, si dissolvono in un battito di ciglia. Mi annoio facilmente, io.

Ad ogni modo, tra noi è rimasta una bella amicizia e una certa complicità.

«Ehi, Tobias… qual buon vento!».

«Buono non direi. Sono in ritardo e ho urgente bisogno di parlare col tuo capo. Ne avrà per molto?».

Lei mi osserva maliziosa e si morde un’unghia laccata di rosso. «Sta esaminando una ragazza arrivata oggi dal Minnesota. Ha un bel visino, ma non è adatta alle sfilate di moda. Troppe curve. Johnson le sta proponendo di lavorare per qualche servizio fotografico, poi si vedrà», si interrompe un istante per sistemarmi il colletto della camicia con una familiarità che permetto a lei e a pochissime altre persone. «E tu perché vuoi vederlo?».

«Una modella mi ha lasciato in asso all’ultimo momento. È rimasta incinta la stronza, e adesso sono nei casini».

Lei mi studia più attentamente. «Sei tu il padre del bambino?».

Mi scappa quasi da ridere. «No, Susan. Non sono io. Sai che ci sto attento. Comunque, ho da realizzare un servizio per Victoria’s Secret e mi manca la modella. Pensavo che Johnson potesse trovarmene una alla velocità della luce. Sono disperato».

«Sei fortunato. La ragazza che è di là con lui potrebbe fare al caso tuo».

«La novellina che non è adatta alle sfilate?». Storco il naso, è più forte di me.

Susan ridacchia. «Sai che per la passerella vogliono solo modelle filiformi, senza culo e tette. Ma per pubblicizzare una marca di intimo sarebbe l’ideale».

«Mi assicuri che non è troppo grassa?»

«Tranquillo, fidati di me. Parlo con Johnson e te la faccio mandare».

«Non più tardi di domani».

«Affare fatto».

Susan mi stringe il braccio, poi si allontana ancheggiando sui suoi tacchi a spillo. Ha ancora un bel culo, devo ammetterlo. Peccato che io non ami le minestre riscaldate.

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