Capitolo 5
Un messaggio sul cellulare: è il gruppo che abbiamo con Ottavio. È lui che ci chiede di andare nel suo studio. Non ne ho voglia, ma Ottavio dalla porta dello studio di Francesco mi chiama. Devo alzarmi per forza.
"Mi è stata fatta una proposta. Uno studio di Londra mi ha offerto di aprire un mio studio in centro. Praticamente sarei io a decidere tutto. Ottavio mi farebbe piacere portarti con me."
Esco dallo studio, prendo la giacca e la borsa e corro via. Come riesce a sconquassarmi nel vero senso della parola ogni volta, emozioni totalmente diverse riesce a farmi provare.
Entro nell'ascensore, premo il piano terra e, mentre le porte stanno per chiudersi, una mano le blocca. Entra lui.
"Che c'è, non sono più degno della tua presenza che prendi e vai senza salutare?"
Non resisto. Parto con un ceffone, che lui prontamente intercetta, bloccandomi la mano e attirandomi a sé. Mi ritrovo con le spalle all'ascensore, bloccata dal suo corpo.
"Perché non mi guardi in faccia?"
"Non voglio" – Dio, quanto mi sta infastidendo questa situazione.
"Perché te ne sei andata da casa mia?" Mi prende il volto e mi costringe a guardarlo in faccia.
"Quando è successo? Ah sì, ormai sono passate quasi tre settimane. Dopo che ti sei fatto il weekend con quella..."
Finalmente, la corsa in ascensore termina.
Lui non si sposta. A mali estremi, gli pesto un piede.
Si tira indietro.
"Non hai risposto alla mia domanda" – Mi segue, cercando di mantenere il passo anche dopo il piccolo infortunio che gli ho procurato.
"Fermati e parliamo! Smettila di fare la ragazzina."
Non ci vedo più, io sarei la ragazzina.
"Ma non ti starai sbagliando? Sei tu il ragazzino che voleva tutto come piace a lui, avresti voluto che quel giorno ti dicessi che hai fatto bene a non svegliarmi, a tenermi con te nella tua torre di cristallo.
Io non sono fortunata come te!"
"Pensavo ti piacesse stare a casa mia."
"Sì. Ma io devo anche lavorare, non è una scelta. È un obbligo per me. E tu mi avevi messo con le spalle al muro. E poi che fai, io ti rifiuto e sparisci per due settimane?! Hai sedici anni per caso?"
Fermo. Immobile. Si passa una mano tra i capelli. Sbuffa.
"Ah, e poi cosa fai? Proponi ad Ottavio di venire con te a Londra? Ma sei scemo?"
"Posso parlare? Anzi, possiamo andare in un posto più tranquillo? Stai strillando come una pazza e ci guardano tutti."
Sì, effettivamente girandomi intorno, qualcuno ci guarda. Annuisco.
Mi prende per mano, e di nuovo il mio sistema nervoso è sull'attenti. Ogni centimetro di pelle non riesce a nascondere l'effetto che ha su di me.
Andiamo alla sua auto. Mi apre la portiera. Tentenno.
"Non ti fidi più?"
Salgo senza rispondere.
Chiude la portiera ed è subito accanto a me.
"Dove mi stai portando?"
"Dove vuoi tu, basta che sia un posto tranquillo."
Lo guido tra le strade della città.
Arriviamo a un piccolo parco, con un chioschetto al centro.
Ferma l'auto e viene ad aprirmi la portiera.
"Bello qui, non ci avevo mai fatto caso."
Mi prende per mano, ma lo guido io. Ci sediamo a un tavolino del chiosco. Arriva la ragazza per prendere le ordinazioni e pochi minuti dopo, la mia cioccolata calda e il suo caffè sono da noi.
"Mi dispiace."
Sospira.
"Nessuna donna mi ha mai fatto l'effetto che mi fai tu." Mi guarda fisso, senza distogliere lo sguardo.
"Quando te ne sei andata mi sono infastidito. Ho pensato che fosse meglio lasciarti stare."
"Cosa è successo con Tina?"
"Sono stato con lei. Siamo andati a un congresso di cui non ti avevo parlato. Sarei davvero poco corretto se ti dicessi che non è successo nulla. Tina e io abbiamo occasionalmente avuto dei rapporti."
Mi lascio cadere sullo schienale della sedia. Prendo un sorso più grande della cioccolata, come per voler mandare giù questo boccone amaro.
"Mi farebbe piacere passare del tempo con te, se vuoi anche tu."
"Per vederti poi andare via con un'altra?" Sono velenosa, ma non posso permettermi di non prendermi cura di me stessa. Specialmente poi se la situazione è questa e ne va anche il mio posto di lavoro.
"Puoi provare a fidarti?" Mi guarda. I suoi occhi mi levano il respiro.
"Va bene, ma tu andrai a Londra. Ti avevo già detto di non voler mettere il mio cuore nelle tue mani, ma tu te ne sei fottuto altamente. Hai preferito strapparmelo dal petto." Alzo le spalle, ricordandogli questo particolare che forse gli è sfuggito.
"Vieni con me, sarai la mia socia." È serio.
"Ma cosa dici?" Sgrano gli occhi.
"Sono serio. Io tengo a te e al tuo cuore."
"Lo so, ma non so nemmeno cosa siamo io e te. Lascerei un lavoro sicuro… non voglio deluderti, ma è complicato."
"Abbiamo del tempo. Non devo partire subito. Un mese di tempo per stare insieme, dedicarci a noi."
Annuisco.
Un mese straordinario, intenso.
Io che praticamente passo più tempo a casa sua che da me.
Ottavio mi chiama uscendo dallo studio di Francesco, mi cerca.
"Ehi, mi hai cercato?"
"C'è un mazzo di chiavi nel mio giubbotto, me le prendi?"
Un portachiavi con un peluche attaccato. Chiavi che non avevo mai visto. Gliele passo sulla scrivania, lui è intento a lavorare al pc.
"Sono tue," mi dice senza guardarmi.
Lo guardo incuriosita.
"Sono le chiavi di casa."
Mi siedo. "Ma?"
Le prendo in mano e le squadro, come se da un mazzo di chiavi potesse uscire qualcosa di diverso.
"Voglio che tu ti senta a casa..." Smette di lavorare al pc e si lascia andare sulla sedia. Mi guarda con quegli occhi che mi lasciano sempre a un passo tra inferno e paradiso.
"Mi hai spiazzato..."
"Era quello che volevo," ride.
Io muoio.
"Quando vuoi, anche quando non ci sono, puoi andare a casa. Fare ciò che vuoi."
"Credi sia il momento giusto?"
"Credo di amarti, di non poter stare nemmeno un istante senza te. E per me questo vuol dire poter tornare a casa da te. Trovarti in giro per casa."
"Le userò subito. Sbrigati a tornare a casa, ti preparerò una splendida cena. E poi ho voglia di fare l'amore con te tutta la notte."
"Andiamo."
Arriviamo a casa. Mi metto subito ai fornelli. Non mi cambio, indosso l'abito preferito da Francesco. Lui lavora alla sua scrivania in salone. Mi sento il suo sguardo addosso.
È passato ormai un'eternità da quando me ne andai da questa casa e lui si fece un weekend con Tina. Lei in ufficio cerca sempre le sue attenzioni, ma lui la ignora. Vedo che lei non riesce a sopportarmi. Mi tollera solo perché è Francesco a imporle la mia presenza. Io sono innamorata, perdutamente.
Lo guardo assorto nei suoi pensieri. È in versione casalinga, con un paio di jeans e un maglione che avvolge perfettamente ogni sua forma.
Suona il campanello.
"Vado io, amore."
Alzo il video citofono. È Tina. Rimango immobile per un secondo. "È Tina."
Lui alza lo sguardo, mi raggiunge e prende il citofono.
"Cosa vuoi?"
"Fammi entrare." È strana. Non l'ho mai vista così.
"Tina, sto per mettermi a tavola con la mia compagna. Cosa c'è?"
"Martina. Adesso mi apri. Cretino che non sei altro. Pensi che io mi diverta a venire ad interrompere la tua luna di miele?!"
"Sali." Francesco è bianco.
“So che se io ti chiedessi di lasciarci soli, non sarebbe giusto. Tina si lamenterà all'inizio, ma poi ti terrò con me. Ascolterai cose che non ti piaceranno. Ti chiedo di ascoltare solamente. Quando Tina se ne andrà risponderò ad ogni tua domanda.”
Annuisco. Non ho forza di fare altro.
Mi siedo sul divano, Francesco accoglie Tina.
“Vieni. Cosa è successo?”
“Lei deve andarsene.”
“Lei è la mia compagna, quindi rimane. Forza sputa il rospo. Cosa ha combinato quella pazza?”
“La bambina sta bene, lei è in ospedale. In fin di vita, è finita sotto un'auto. È praticamente in fin di vita. Ci è caduta di nuovo.”
Una bambina, chi è?
Francesco è alla finestra sta guardando fuori, ha la mascella serrata.
“Continua”
“Sai che io non mi intrometto e posso risolvere tutto. Ma credo questo sia il momento di prendere con te la bambina.”
“Domani andrò in ospedale, voglio conoscere le condizioni di Emma. La bambina affidala per il momento a qualcuno di fidato. Ho bisogno di tempo”
“Sai che non avrebbe nessuno con cui vivere. Cerca di sbrigarti a decidere”
Si volta e se ne va.
Io sono confusa, una donna, una bambina. Tina che corre da lui per dire tutto. Come mai è coinvolto lui?
Francesco continua a fissare fuori.
“Ehi” non riesco a muovermi ed avvicinarmi.
“Ci sono, ho bisogno di qualche minuto.”
Non mi muovo. Rimango lì, istanti che sembrano interminabili. Poi inizia a parlare.
“Non ero giovane. Non ti conoscevo ancora. Cinque anni fa ho conosciuto Emma.” Prende un respiro. “Mi ero innamorato. Lei era una tossicodipendente che ho dovuto difendere in un processo. Una sera me la sono trovata qui, dentro casa. Era riuscita ad entrare, voleva parlarmi. Raccontarmi le sue motivazioni del processo. Di ciò che aveva fatto. Insomma me la sono ritrovata qui.” Respira.
“Continua” lo esorto.
“Abbiamo fatto l’amore. Siamo stati insieme sei mesi.” Le sue parole sono ferme. Come se stesse raccontando qualcosa che non lo riguardi direttamente.
“È rimasta incinta. Abbiamo deciso di portare a...”
Nulla, non riesco, devo alzarmi e versarmi da bere. Lui non si è mosso da difronte alla finestra ha uno sguardo vuoto che mi trafigge.
“Continua…” mi siedo nella poltrona accanto a lui.
Cerca la mia mano. Si siede sul lato della poltrona. Mi dà le spalle.
“È nata Martina… era straordinariamente bella” piange.
Mi alzo. Lo avvolgo in un abbraccio. Cerca le mie labbra.
“Continua, cosa è successo?”
“Mia mamma si chiamava Martina. Ha deciso Emma di darle questo nome. Io non ero molto convinto.”
“Lei mentre era qui aveva smesso di drogarsi. Stavo cercando di portarla fuori da quel mondo.”
“Un giorno rientro, trovo lei in terrazzo. La bambina nella nostra stanza che piangeva disperata. Si era fatta. Indossava le cuffiette, chissà da quanto piangeva” Si rabbuia.
“L’ho mandata via, ho mandato lei e la bambina dai suoi genitori in Svizzera. Ho provveduto a loro economicamente negli ultimi sei anni. Ho fatto sì che si disintossicasse. Abbiamo firmato un accordo, io, lei ed i suoi genitori. Di totale riservatezza. Nessuno sa che Martina è mia figlia. Tranne Emma, i suoi e Tina. È stata lei a redigere l’accordo. Era l’unica di cui mi fidavo.”
Piango. Ha una figlia, c’è stata un'altra donna nella sua vita che gli ha fatto desiderare ciò che noi ora abbiamo.
“È tutto?” Chiedo.
“No” continua, “Due anni fa è morto suo padre. Sei mesi fa è morta sua mamma. Lei non si drogava da quando la trovai a casa quando la mandai via. Sapevo che aveva riniziato dopo che sua mamma è morta. Speravo che Martina le desse la forza di stare lontana da quella merda. Non è stato così.”
Prendo un respiro, ha una figlia. Chissà com’è. Avrà i suoi occhi. Il suo sorriso.
“Non hai più visto la bambina?” Mi scappa fuori dai denti.
“No, non sono certo l’esempio di padre dell’anno. Ho preferito lasciarle a Emma. Alle cure dei nonni. È cresciuta sicuramente meglio.”
“Cosa pensi di fare?”
“Sei la mia compagna, non penso sia una decisione che io debba prendere solo.”
“Mi stai chiedendo di accogliere tua figlia in casa?”
“Mi stai facendo venire voglia di famiglia, è un po' di tempo che ti guardo ed immagino come potrebbe essere un figlio nostro. Se magari potrebbe avere il tuo sorriso. O i tuoi occhi” mi guarda, siamo seduti ora sul divano, uno di fronte l’altro.
“È tua figlia, penso che doveva già essere qui. Non se ne sarebbe mai dovuta andare. Non la avresti dovuta affidare alle cure di una drogata” sputo senza tenermi ciò che penso su questa donna.
“È una persona malata” la difende, “È stata una buona madre, sono sempre stato informato sulla loro vita. Io non sono un buon padre.”
“Io invece penso che tu possa essere ciò di cui quella bambina abbia bisogno.”
Lo bacio e chiudiamo il discorso. Anche se le domande nella mia testa sono un'infinità, ma lui è molto provato.
Ceniamo e andiamo a letto. Continuando a parlare di tutto tranne che di quello che aveva sconvolto la nostra serata.
Passa una settimana, non sento parlare né della bambina né di questa donna. È l’alba, vedo la luce del sole filtrare dalle tende. Squilla il telefono di Francesco. Salto seduta, lui mi rendo conto che era sveglio.
“Pronto” ascolta, sento la voce di Tina.
“Capisco” si mette una mano sugli occhi. “Mi vesto, arrivo.”
Riaggancia, si poggia alla testiera del letto. “Emma è morta.”
Scoppio a piangere.
Lui mi avvolge, sento che mi dà dei delicati baci.
“Amore io devo andare in ospedale. C’è la bambina.”
“Andiamo, vengo con te” non gli permetto di ribattere.
“Amore forse è il caso di non prendere la moto. La bambina è il caso che torni con noi” lo guardo.
“Cavolo. Non ci avevo pensato alla moto.”
Prende la macchina. Ci dirigiamo in ospedale, il traffico di quell’ora ci permette di essere lì in 15 minuti.
Tina è all’entrata dell’ospedale. Non è vestita come al solito di tutto punto, indossa una tuta. Ha i capelli legati. Avvicinandomi mi rendo conto che ha in braccio una bambina che dorme tra le sue braccia.
Francesco si avvicina. Ignora la bambina.
“Al primo piano. Vai, io rimango qui con lei.”
Lui mi continua a tenere la mano. “Amore vuoi che rimanga qui con Tina?” Gli bisbiglio all’orecchio.
Si volta, mi dà un bacio e mi lascia con lei. Mi avvicino, nel frattempo la bambina ha aperto gli occhi.
“Zia Tina chi è lei?” Una voce delicata. I ricci scompigliati di suo padre, capelli rossi. E occhi grandi e verdi mi guardano ancora assonnata.
“È un’amica della zia, è molto simpatica. Ti va di rimanere con lei per un pochino?” Le bisbiglia all’orecchio Tina.
La bambina allarga le braccia.
“Mi occuperò io del suo funerale” Francesco esce dalla stanza dove il corpo di Emma è stato sistemato.
Ignora Tina che cerca di parlargli per tornare dalla bambina.
Lo vedo, è avvolto nella sua tuta. Il suo giubbotto, la sciarpa.
Si avvicina, si siede accanto a me.
“Dorme” dice guardando la bambina.
“Vuoi prenderla tu?”
“No, no. Potrebbe svegliarsi. Non sono capace.” Sembra quasi gli abbia chiesto di prendere in mano una bomba.
“Forse è il caso di andare a casa” gli prendo la mano e la poggio sulla mia che abbraccio la bambina.
È così smarrito.
“La portiamo con noi…” bisbiglia.
Annuisco. Londra è così lontana, abbiamo dovuto rimandare la partenza.
Saliamo in auto. Lui mi apre la portiera. Nell’auto è comparso un seggiolino per la bambina.
“La sai legare. Io non so come muovermi”
Annuisco e poso la bambina.
Saliamo in macchina e dopo poco siamo a casa. La bambina è sveglia. Ci osserva mentre scendiamo dalla macchina. Io mi avvicino e la prendo in braccio.
“Ciao, ben svegliata Martina.”
“Lui è il mio papà?” Mi guarda con i suoi grandi occhi.
“Sì, sai come si chiama?” Entriamo in casa e ci sediamo sul divano.
“Mamma me ne ha parlato. Mi ha detto che mi vuole tanto bene.”
“È vero, ti vuole molto bene. Ti va se si siede qui con noi? Potremmo guardare i cartoni.”
Martina annuisce con un sorriso timido e si avvicina a Francesco, che la accoglie con un abbraccio gentile. La situazione, sebbene complessa, sembra trovare una parvenza di normalità.