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Capitolo 4

Entra, e il trambusto aumenta. Sembra una colluttazione. Non so se entrare ignorando quello che mi ha detto Francesco.

Mi affaccio: le luci si riaccendono improvvisamente. Il padre di Francesco è legato su una sedia, ha un tovagliolo in bocca, una guancia gonfia e del sangue che esce da un taglio sulla fronte.

La compagna è a terra, sembra svenuta. Gli altri ospiti sono seduti immobili con le mani in alto.

Francesco è a terra; un uomo lo sta picchiando. È il cameriere che ci ha servito al tavolo, indossa ancora la divisa.

Il padre di Francesco mi ha notato e mi indica con gli occhi. La porta, quella di ingresso da dove siamo entrati prima. Francesco mi ha detto di non muovermi, ma non posso stare ferma a guardare.

Faccio il giro, apro la porta. Accanto c'è il portaombrelli; noto che all'interno c'è un bastone da passeggio. Lo prendo e mi avvio in salone.

L’uomo è ancora intento a picchiare Francesco, non si è accorto che sono entrata. Colpisco con tutta la forza che ho. L’uomo si accascia.

Gli ospiti applaudono. L’uomo cade a faccia in giù, e Francesco balza in piedi. Cerca qualcosa per legare l'aggressore e lo lascia lì.

Corre dal padre, gli toglie il tovagliolo dalla bocca, lo slega e poi si dedica alla compagna, che ha ripreso un po' i sensi. La accompagna sul divano, dove alcuni degli ospiti si abbracciano e piangono.

Fabio, il padre di Francesco, corre da me, che nel frattempo sono rimasta immobile con il bastone in mano.

“Sofia, ti senti bene?” mi guarda fisso, “ci hai salvati” e mi abbraccia.

Scoppio in lacrime. Fabio, un po' spaesato, accoglie le mie lacrime. Dopo poco richiama l’attenzione di suo figlio.

“Portala a casa.”

“Papà, non voglio lasciarvi soli.”

“Vai, tra poco arriverà la vigilanza e la polizia.” Continua a tenermi vicino a sé mentre sono praticamente un fiume in piena.

Delicato, mi avvicina a Francesco che mi accoglie tra le sue braccia, un po' riluttante.

“Ok, andiamo,” mi abbraccia, “ti chiamerò tra un po'.”

Mi guida; sono persa, non credo di sapere nemmeno dove mi trovo. Il bacio, il tipo che picchiava Francesco, io che non rimango dove mi ha detto.

Saliamo in auto; sale anche lui e si controlla il volto.

Io non riesco a dire nulla, singhiozzo.

“Dovevi rimanere dov'eri, ti sei messa in pericolo.” È arrabbiato, guida veloce.

“Non puoi fare sempre ciò che vuoi,” mi guarda mentre guida, “mi senti?”

Singhiozzo più forte. “Basta, fammi scendere!” urlo con le lacrime che scendono come un fiume in piena. Si ferma e scendo dall'auto. Siamo in mezzo a una strada totalmente buia, inizio a camminare.

Lui non si muove, continuo a camminare.

Sento lo sportello dell’auto che si apre; lui scende e non si muove.

“Dove pensi di andare?” cerca di fare qualche passo “fermati, per favore.”

Mi volto. “Smettila di darmi ordini!” urlo. “Non sei nessuno, non ti voglio.” Mi volto di nuovo e continuo a camminare.

Sento i suoi passi veloci. Mi raggiunge, sento che mi prende per un braccio.

“Mi dispiace,” cerca di trattenermi mentre io provo a camminare. Mi volto, cerco di spingerlo via. “Ho avuto paura per te, non voglio che ti accada nulla,” continua a tenermi mentre praticamente siamo in due ora ad allontanarci dalla macchina.

“Torniamo in auto,” si mette di fronte a me. Ho smesso di piangere, sento le lacrime che mi si stanno asciugando in faccia.

Mi prende per mano, mi lascia riportare in auto. Sono davvero stravolta.

Riaccende l'auto, mi prende la mano e la tiene. Mentre cambia le marce, fluido e sinuoso.

“Vieni con me, non voglio lasciarti sola.” Mi sta proponendo di dormire con lui. Annuisco.

Via, continua a guidare tenendo salda la mia mano alla sua. Mi addormento, sono distrutta; questi due giorni sono stati così intensi.

E poi, prima nel parco, il bacio. Se ci ripenso, sento il mio corpo che si mette sull'attenti. Riesco a sentire ancora le sue labbra sulle mie. Ho forse sognato? Sì, perché poi uno ci pensa.

Arriviamo, ci fermiamo. Mi sveglio sentendo la macchina che si ferma. Un palazzo molto alto. Viene ad aprirmi lo sportello, mi poggia di nuovo il suo giaccone sulle spalle e mi abbraccia, guidandomi.

Attraversiamo il portone, saliamo le scale e entriamo nell’ascensore. Sarà banale, ma nell’ascensore sono io praticamente a saltargli addosso. Non gli resisto. Io, 24 anni; lui, 44. Vent'anni che in questo momento non percepisco assolutamente.

“Ferma, ferma, che male!” Si tocca la faccia; effettivamente non è ridotto benissimo. Un occhio gonfio, qualche graffio e il labbro spaccato.

“Hai del disinfettante in casa?” l’ascensore si ferma.

Annuisce.

Entriamo, è buio.

“Ciao, casa.”

Una voce metallica risponde e si iniziano ad accendere tutte le luci della casa.

“Cavolo,” non riesco ad esclamare altro.

“Ti piace?”

“Molto,” mi giro intorno. Un grande divano nero di pelle. Un muro a mattoncini rossi, dove una mega TV regna sovrana. Libri, tantissimi libri.

Ricompare da dietro una porta, ha in mano il disinfettante. Me lo porge.

“Ci pensi tu?”

Prendo il disinfettante, lui si siede. Inizio a disinfettarlo.

“Cosa mi combini… mi hai fatto prendere uno spavento enorme!” mi dice mentre mi tiene per i fianchi. “Ho avuto paura per te…” glielo dico a pochi centimetri dal suo volto. Ho pensato davvero di perderlo.

“Sei così ribelle,” mi scompiglia i capelli.

“Non so se sia giusto che io sia qui…” dico con una voce preoccupata.

“Vorresti andare a casa?” mi blocca lui la mano con il batuffolo di ovatta. “Non ti ho chiesto di dormire con me; avrei dormito sul divano. Ti avrei lasciato la mia stanza.”

“Ah, capito… mi dici perché?”

“Cosa? Perché mi scompigli così… perché ho una voglia matta di baciarti.”

Sgrano gli occhi e faccio un piccolo balzo.

“Ho finito di disinfettarti.”

“Vieni, ti faccio vedere casa.”

Stanze stupende: 4 camere da letto, una diversa dall’altra, la sala hobby, lo studio, il salone. La cucina nella quale mi perdo davvero. Tre bagni che sono praticamente più grandi di casa mia se li sommo.

“Che bella casa, così grande e ci vivi solo?” Sono così incerta su quello che sta accadendo. Non voglio sminuirmi, ma lui è un avvocato di successo. Io sono laureata da un anno, posso anche essere una bella ragazza, ma sinceramente non posso essere al pari di quelle donne, donne come Tina, che possono offrirti tanto altro, penso.

Si avvicina e come a bussare sulla mia testa “Ma cos’hai in questa testolina?” poi mi accarezza e mi bacia.

Si stacca e continua a preparare la tisana che mi ha promesso. Ci sediamo di fronte al fuoco, per terra, con la schiena poggiata al divano.

“Perché volevi fare l’avvocato?” mi chiede lui.

“Ho sempre sognato di essere uno di quelli con la toga, che indaga, ascolta, cerca di capire,” sorrido. “Quando ero piccola giocavo a fare il processo: mio fratello era il ladro, mia cugina e mio cugino facevano gli avvocati e io il giudice.”

Sorride anche lui, mi guarda interessato.

“E tu?”

“Io sono nato in una famiglia di avvocati, diciamo che non ho mai avuto scelta. C’è stato un periodo in cui avrei voluto fare psicologia, sai… non l’ho mai detto a nessuno!” Francesco sorride.

“Credo di non aver scelto psicologia perché, dopo che mia mamma si è suicidata, non volevo dare un ulteriore dolore a mio padre,” dice, il volto si rattrista. “Mi ricordo così bene… il suo sorriso mi travolgeva ogni volta che mi guardava. Sentivo che papà e lei litigavano così tanto, mi nascondevo nell’armadio.”

Mi prende la mano e le dà un bacio.

“Mi dispiace,” gli faccio una carezza.

“Rimani, dormiamo separati. Ma rimani. Domani mattina presto ti riporto a casa e poi andiamo in ufficio.”

“Va bene.”

“Vieni dai, è tardi. Andiamo a dormire.” Mi prende per mano e di nuovo sono tra le sue braccia. Mi stringe.

Il tour della casa continua; la camera è straordinaria.

“Vieni qui, hai il bagno.” Mi fa strada. “Poi qui dentro hai asciugamani puliti e tutto il resto. Io scendo sotto; se ti serve qualcosa, mandami un messaggio.”

Mi faccio una doccia, mi metto una sua tuta e mi infilo a letto. Crollo.

È mattina; credo di aver dormito un'eternità. Guardo l’ora: sono le 11. Balzo dal letto e mi catapulto giù per le scale. Francesco non lo trovo. Torno su e lo chiamo; il telefono squilla stranamente nella mia stanza, è nel bagno. Non entro, busso.

“Mi avresti dovuto svegliare, dovevamo essere in ufficio da un pezzo.”

“Cosa? Entra, non ti sento.”

Preferisco iniziare a vestirmi. Mettere piede in quel bagno vorrebbe dire arrendermi totalmente a questa confusa situazione.

Mi rimetto quello che portavo ieri sera. La porta del bagno si apre. Un aroma di pachouli invade la stanza; ne faccio il pieno nei polmoni.

Mi volto; è mezzo nudo, con un asciugamano intorno alla vita e nulla di più. Sento le gambe che tremano, ogni centimetro di pelle sembra scolpito.

“Perché ti sei cambiata? Dammi cinque minuti e ti riporto io.”

“Mi avresti dovuto svegliare, dovevamo essere in ufficio da un pezzo.”

“Ah sì, ho chiamato e ho detto che sei con me per una sentenza.”

“Ma non è giusto…” Si potrà essere figo quanto vuole, ma non può disporre di me così.

“Meglio che vada. Ci vediamo in ufficio.”

Esco dalla stanza, lo lascio lì senza dargli il tempo di seguirmi.

Esco; non credo di sapere in che quartiere sono. Attivo la geolocalizzazione e chiamo un taxi.

Mezz’ora dopo sono in ufficio. Francesco esce dallo studio di Tina. Non mi guarda, sembra quasi che io non esista per lui in quel momento.

Sono le 13:30. Alzo lo sguardo dalla scrivania. A quell’ora, di solito, Tina avrebbe già urlato di prenotare per il pranzo. Vedo Francesco che esce dal suo studio, bussa da Tina, che prontamente, come se lo stesse aspettando dietro la porta, apre con già in mano la giacca e la borsa. Si avviano alla porta; lei gli porge il giacchetto e lui glielo infila.

Ottavio, che è seduto di fronte a me, si gusta la mia mascella che per poco non cade a terra.

“Ma tu e Francesco?” chiede.

“No, ti sbagli,” rispondo netta, senza indecisioni.

“Mi era sembrato. Mi sarò sbagliato.”

Ad Ottavio arriva un messaggio.

“Francesco è partito per il week-end… con Tina.”

Non riesco a dire nulla. Ignoro tutto: ignoro ieri sera, i baci, e il timore per la sua vita.

Arrivano le 17 finalmente; non ho mai desiderato così tanto raccogliermi tra le coperte del mio letto e dormire fino a lunedì.

Arrivo a casa, sono le 18. La mia coinquilina non c’è. Anche lei è partita per il week-end. Posso fare quello che voglio senza essere disturbata.

Francesco non so, ma davvero mi era entrato in testa. Tina lo ha sempre tenuto in pugno, quindi, per quanto mi dia fastidio, devo far finta che quello che è accaduto in questi giorni non sia mai accaduto.

Mi butto sotto la doccia per lavare via il suo odore che porto ancora addosso.

Sono le 7 di lunedì. Torno da correre, mi faccio una doccia veloce e alle 7:30 sono già fuori di casa, diretta verso l’ufficio. A piedi ci metto 10 minuti. Sono, come sempre, la prima ad arrivare.

La settimana corre lenta; di Francesco nemmeno l’ombra. Tina, come sempre, mi incomincia di nuovo a urlare contro come se le settimane precedenti non fossero esistite.

Passano due settimane prima che io riesca a sentire di nuovo il nome Francesco in quello studio. Ottavio ha evitato accuratamente di pronunciarmelo; non ho potuto nascondergli il fatto che ogni volta che la porta si apriva mi si gelava letteralmente il sangue.

“Ma non lo hai più sentito? A me scrive ogni giorno cosa gli occorre,” incalza Ottavio.

“No, non più una parola dal giorno che sono partiti con Tina.”

“Ma questa cosa è davvero strana, per come è fatto lui. Ormai credo di conoscerlo bene. Ma avete litigato?”

“No, niente liti.”

“Sta tornando, oggi torna in studio. È stato a lavorare a casa dei suoi. Ha spostato allo studio che ha lì tutti gli appuntamenti.”

Finisce la frase e la porta dello studio si apre. Lui.

Il suo sorriso è conturbante. Incontra Carlo che esce dal suo studio e si salutano.

Un accenno a Ottavio, a me di nuovo nulla. Cavolo, quanto mi innervosisce!

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