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Capitolo 3

“Cosa è successo?” bisbiglio.

“Sei svenuta praticamente tra le mie braccia. Ti abbiamo misurato la pressione ed è un po’ bassa. Per te la giornata lavorativa finisce qui; sto uscendo per un’udienza e ti porto a casa. Non puoi prendere i mezzi.”

Lo guardo. Sa che prendo i mezzi? Mi spia? Cosa vuole quest’uomo da me?

“No, non c’è bisogno...” Niente, non mi fa nemmeno finire la frase che già mi ha rimesso in piedi, mi tiene stretta, ma non quello stretto da far male, quello stretto da posso stringerti così solamente io e nessun altro.

“Prendi le tue cose.”

Usciamo dallo studio insieme, lui che mi scorta sotto gli occhi fiammeggianti di Tina. Sembra quasi che mi voglia sbranare; non riesce a sopportare che Francesco mi stia accanto.

Non apro bocca. Durante il viaggio mi lascio sfuggire solo qualche sospiro. Non ho voglia né le forze di discutere con lui.

Lui, che non è in grado di tenere il suo uccello nei pantaloni nemmeno in ufficio. Immaturo sicuramente molto più di tanti altri giovani che conosco.

Ci fermiamo davanti al mio cancello.

“Ti accompagno dentro,” bisbiglia, sembrando quasi arrabbiato. Non capisco perché, però. Sono io che l’ho visto con Tina e che sono poi svenuta.Non lo contraddico, mi apre lo sportello e prende le mie due borse, praticamente sfilandomele dalle mani. Mi precede e si ferma di fronte al portone.

“Mi dai la borsa? Devo prendere le chiavi.”

Me la porge.

Siamo di fronte alla porta di casa; senza che lo inviti ad entrare, quasi mi scavalca, entrando e poggiando le borse sul divano. Si muove dentro casa come se ci fosse già stato.

“Devi riposare, mi raccomando.” Mi guarda negli occhi e sento di nuovo le gambe cedere. Credo davvero di dover dormire. Giorni pieni di emozioni.

“Vuoi che rimanga? Quando ti sei messa a letto, vado via. Posso prepararti una tisana mentre ti cambi.” Ma si facciamolo rimanere.

“Vado in camera, la cucina è lì,” dico indicandola. “Le tisane sono nel cassetto sopra ai fornelli.” Non ho la forza di discutere.

“Vai, tranquilla.”

Prendo una tuta e me la metto, torno di là. Si è tolto la giacca e la cravatta, si è arrotolato le maniche. Sta mettendo la pasta e, guardandolo, effettivamente sento un leggero languore.

“Devi mangiare. Ho fatto un piatto di pasta anche per me; spero non ti dispiaccia.”

Mi siedo e lo lascio fare, porto le ginocchia al petto.

“Tranquillo, va bene.”

Si volta verso di me, mani poggiate sul ripiano della cucina. “Mi dici perché non mi parli da stamattina?”

“Non ho nulla da dirti…” bisbiglio io. O forse quello che vorrei dirti non ti piacerebbe.

“Non ci credo. Mi dispiace che tu abbia visto me e Tina.” Prende la sedia, si siede di fronte a me con i gomiti poggiati sul tavolo e il viso tra le mani. “Non è nulla di ciò che hai visto.”

“Credo tu abbia frainteso; non è affare mio chi ti porti a letto o a chi tu faccia aprire le gambe,” esclamo alzandomi per assaggiare la pasta.

“Non è cotta. Siediti.” Mi prende per una mano e mi ritrovo seduta in braccio a lui.

Lo guardo fisso, sono a pochi millimetri da lui. “Ti prego, dimmi cosa vuoi da me.” Gli faccio una carezza; per la prima volta sono io a toccarlo. Sento la sua pelle al mio tocco bollente.

“Non posso offrirti nulla. La ragazza di ieri in discoteca, Tina… pensi che io possa arrivare mai al loro livello?” Sembra quasi che gli stia dicendo qualcosa di sbagliato; continua a scuotere la testa. “Io non ho bisogno di fare l’amore, ho bisogno di riporre il mio cuore nelle mani di qualcuno che non lo riduca in brandelli. Tu…”

Mi cinge la vita e ci alziamo. Non dice nulla. Scola la pasta, fa due piatti e li mette uno di fronte all’altro.

“Mangiamo altrimenti si fredda,” esclama.

Finito di mangiare, inizia a rivestirsi. Di fronte allo specchio del salone si fa il nodo alla cravatta e si tira giù le maniche. Prende la giacca e si avvicina alla porta. Io lo seguo.

Non risponde a quello che gli stavo dicendo prima; ha ignorato totalmente ciò che stavo dicendo.

“Ci vediamo domani,” e scende le scale. Alzo le spalle e chiudo la porta. Non so davvero cosa dire. Francesco riesce a confondermi come nessun uomo abbia mai fatto.

Vado in camera, accendo la TV. Il telefono suona: un messaggio. “Domani non venire in ufficio, vieni in tribunale.” Francesco.

Mi metto a letto e crollo.

Sono le 8.30 e sono di fronte al tribunale. Oggi è freddissimo; porto un vestitino sopra al ginocchio nero con dei dettagli rossi, gli stivali e un giaccone lungo. Una grande sciarpa mi avvolge per tenermi ancora più calda.

Ecco Francesco. Ha tagliato i capelli; adesso i suoi ricci sono meno scompigliati, più ordinati. Indossa un completo gessato, la camicia bianca, il giubbotto e una grande sciarpa.

“Come ti senti?” nemmeno buongiorno.

“Buongiorno, bene grazie.”

“Seguimi, prendi questa borsa. Dobbiamo andare dal magistrato.”

Francesco mi ha portato sempre in tribunale con lui, anche quando ero con Tina. Mi ha sempre affascinato questa cosa. Io sto cercando di diventare una migliore avvocato. Lui mi ha sempre spiegato, dopo ogni causa, cosa avesse reso il caso vincente per lui.

Passiamo una giornata in tribunale, passiamo una giornata senza parlare di ieri. La giornata vola; praticamente abbiamo un’infinità di udienze da discutere, non abbiamo avuto davvero nemmeno quasi modo di parlarci se non di lavoro. Lo guardo sempre affascinata e lui ne è consapevole. Sa benissimo di che effetto fa a una donna.

“Vieni, andiamo. Ho una cena con degli amici, vuoi venire?”

Lo guardo. “Ok.”

Saliamo in auto, mi apre lo sportello come sempre e poi è accanto a me.

“Come mai mi porti a una cena con i tuoi amici?”

“Non ne hai voglia?”

“Non ho detto questo.”

“Mi piace stare con te, non solo durante il nostro lavoro.”

“Capisco… ti ho chiesto una cosa ieri, non mi hai risposto.”

“Non ti risponderò… non ne ho voglia.”

“Non ne hai voglia?”

“Sì, basta.” Risponde impetuoso, guardandomi con la coda dell’occhio.

“Basta? Ma pensi che io sia una bambola che puoi prendere o lasciare a tuo piacimento? Ora mi porti con te a una cena? Cosa vuol dire?”

“Siamo arrivati.”

Nulla, non risponde. E sa che la cosa mi manda ai pazzi. Non sopporto quando fa così, trattandomi come se fossi di porcellana.

Scende e, come sempre, viene ad aprirmi la portiera. Inciampo scendendo e, come ogni momento in questi giorni, mi ritrovo tra le sue braccia. Mi guarda fisso negli occhi.

“Fai attenzione.” Un bacio, a stampo veloce, rapidissimo; non ho nemmeno tempo quasi di rendermene conto. Mi prende per mano e iniziamo a camminare. Siamo nel giardino di una grande villa.

Entriamo; nessuno alla porta ad accoglierci. Si sente rumore in un salone. Mi toglie il giubbotto, prende la mia borsa e le poggia su un tavolo dove già ci sono molte altre cose.

“Eccolo! Finalmente… ed in compagnia!” urla un giovane che sì e no avrà avuto 16 anni, seduto su un divano mentre gioca a una console.

Una donna si avvicina e gli dà un bacio sulla guancia. “Ben arrivato,” si allontana e continua ad apparecchiare.

“Ragazzi, lei è Sofia, una mia amica,” dice, versandosi un bicchiere di vino. “Ne vuoi?”

Annuisco, meglio aiutarmi con l’alcol. Mi dà il suo bicchiere e se ne versa un altro.

Si avvicinano due donne, hanno circa quarant’anni. Iniziano a parlare di cause; non seguo alcuni passaggi e mi distraggo ad ammirare la casa. Ad un certo punto, un uomo si avvicina.

“Ehi giovanotto, vieni qui e abbraccia il tuo vecchio!”

“Papà! Come stai?” lo abbraccia.

È suo padre! Mi ha portato a cena a casa di suo padre. Questa me la paga.

Ci sediamo e inizia la cena.

“Mi hai portato a casa di tuo padre…” gli bisbiglio avvicinandomi.

“No, è casa di Flavia,” mi indica la donna a capotavola, una donna con i capelli rossi lunghi raccolti in una lunga coda. “È la compagna di mio padre. Di solito ci riuniamo qui ogni tanto. Siamo tutti avvocati e passiamo una serata in compagnia.”

Continuiamo a mangiare e chiacchieriamo di un’infinità di argomenti diversi.

“Ehi Sofia, da quanto tempo conoscete mio figlio?”

“Un anno circa, lavoro nel suo studio.”

“Capisco. Sai, sei la prima donna che porta qui da noi. State insieme?”

“Papà! Smettila di importunare Sofia.” Francesco lancia un’occhiata severa al padre.

Il padre ride e si volta per continuare a parlare con Flavia, che nel frattempo gli aveva posato una mano sulla sua.

Francesco mi prende per mano e ci alziamo. Prende la sua giacca e me la posa sulle spalle. Mi trascina fuori, nel giardino. Da rimanere senza fiato: il giardino è un incanto, fiori e piante creano un paesaggio quasi fiabesco.

Sono ancora a bocca aperta quando lui mi interrompe.

“Bello?”

“Parecchio…”

“Quando vivevo qui da bambino era il mio posto preferito. Dentro casa non volevo mai starci. Vieni.”

Di nuovo mi trascina; siamo sempre più nascosti, sempre meno visibili agli altri che sono distratti nelle chiacchiere.

Ci fermiamo, si volta e si mette di fronte a me. Mi guarda fisso negli occhi. Io per guardarlo devo stare con la testa piegata verso l’alto. Sarà quindici centimetri più alto di me.

Mi mette le mani sui fianchi e mi spinge indietro; finisco contro un albero e lo sento. “Che c’è?” chiedo.

“Nulla.” Mi bacia, intenso, travolgente.

Ogni fibra del mio corpo vibra sotto le sue mani ferme sui miei fianchi. Una mia mano inizia a risalire dalla sua cinta e si ferma sul suo petto.

Quel bacio non so bene quanto sia durato, quanto mi sia totalmente persa. Mi tira su ad un certo punto; istintivamente mi aggrappo a lui con le gambe. Si stacca e mi sorride. Mi tiene così, legata a lui. Ci sediamo, credo su una panchina. È buio e non vedo bene.

I suoi occhi al buio sono qualcosa di indescrivibile; solo la luce della luna ci illumina.

“Cosa mi fai fare…” dice lui, quasi con una voce stanca.

“Io?”

“Sei una strega, dillo…” sorride anche lui.

Rido, faccio per alzarmi ma niente; mi trattiene su di lui, non muove le sue mani dai miei fianchi. Sento il calore delle sue mani attraverso la stoffa del mio vestito.

“Rimaniamo qui tutta la notte?” controllo l’orologio. “È mezzanotte, devo andare.”

Un bacio sul collo. “Ok, ti riaccompagno.”

“Tu devi parlarmi però, devi imparare a non ignorarmi,” lo incalzo io.

“Va bene, capo,” ride.

Muoio per la sua risata.

Ci incamminiamo verso casa. Sentiamo molto trambusto, qualcosa di strano; le luci sono spente.

“Qualcosa non va… Non spengono mai le luci. Rimani qua. Non muoverti! Torno io a riprenderti. Ti prego, fa’ per una volta ciò che ti dico.”

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