Capitolo 2
“Oggi ho bisogno di non essere il tuo capo e tu non sei la mia tirocinante. Voglio fare quello che farei se ti incontrassi in discoteca… che ne pensi? Possiamo?”
Di nuovo ogni centimetro del mio corpo è in allerta per queste parole che lui pronuncia a pochi millimetri dal mio orecchio. Annuisco alla sua richiesta, che mi imbarazza un po' e mi stuzzica un po' di più.
Mi mette di nuovo una mano intorno alla vita, sotto il giubbotto di pelle, precisamente dove il mio top nero e la mia gonna lasciano scoperta qualche striscia di pelle. Sento un pollice che si muove sulla mia pelle, come a tracciare piccoli cerchi.
Siamo fuori, e il fresco della serata settembrina mi scuote. Un divanetto libero attira l’attenzione di Francesco.
“Da quanto tempo non venivi in discoteca?”
Lo guardo, seduto accanto a me. Non siamo mai stati così vicini. “Molto, almeno sei anni,” rido nervosa, “tu sembri invece un habitué.”
“Capita spesso, sai, gli avvocati quarantenni non hanno molto di che divertirsi al giorno d’oggi.”
“Cosa fai oltre alla discoteca? Per divertirti intendo.” Cerco di avviare una conversazione che abbia un senso compiuto, così magari non si rende conto che sono un po' in difficoltà.
“Kite surf, arrampicata, sci, mostre d’arte moderna… e il mio cane, Happy.”
“Non sapevo avessi un cane!” Il mio amore per gli animali, soprattutto per i cani, è sempre stato presente. Da bambina, quando per strada con mio padre incontravo un cane, dovevamo assolutamente fermarci per almeno dieci minuti.
“Tieni, guarda,” tira fuori l’iPhone, lo sblocca e mi mostra una foto del suo golden retriever a pelo chiaro. Sono naso a naso nella foto, lui ha gli occhi chiusi.
“Ma è un amore!” Gli porgo il telefono.
“E tu, invece? Oltre al lavoro?”
“Beh, non ho una vita movimentata come la tua. Devo studiare comunque, anche se mi sono laureata. Vorrei diventare anche io socia del vostro studio non appena avrò raggiunto i giusti risultati. Per farlo, ho dovuto rinunciare a parecchio.”
Lui mi guarda, quasi dispiaciuto. “Prima? Cosa combinavi? Dai, non puoi aver rinunciato a tutto…”
Ci penso. Effettivamente, qualcosa è rimasto. “Faccio arrampicata. Da quando ero bambina.”
“Dai, bello! Qualche volta potremmo andare insieme.” Sorride e si stringe ancora a me.
Il mio giubbotto di pelle inizia a non fare più il suo dovere; ho la pelle d’oca.
“Hai freddo?”
“No, tranquillo,” mi stringo nel giubbotto.
Davanti a noi compare Ottavio, che ci guarda. “Ciao ragazzi,” e sviene di fronte a noi, senza dire altro.
Balziamo entrambi in piedi. Io ho fatto il corso di primo soccorso, mi avvicino e cerco di capire cosa gli stia accadendo.
“È solamente svenuto, però dobbiamo chiamare un’ambulanza. Chiamala!” Guardo Francesco, che sembra leggermente nel panico.
“Fra! Forza, chiama!” quasi a scuoterlo mentre cerco di far riprendere Ottavio.
L’ambulanza lo porta via. Sembra che si sia ripreso quando già lo mettono sulla barella. Francesco, dietro di me, crolla su una panchina fuori dal locale. “Sei stata fenomenale, lo sai? Io non avrei saputo fare di meglio.”
“Ho fatto un corso di pronto intervento. Quando ero più piccola, ero negli scout.”
“Donna dalle mille risorse.”
“Ora ho però un problema… Io ero con Ottavio in moto.”
“Qual è il problema? Ti porto io a casa. Vieni.” Balza in piedi e di nuovo ho le sue mani sulla mia pelle. Si toglie il giubbotto e rimane solo con il maglione, me lo poggia sulle spalle. Ci avviamo alla sua auto, camminiamo per un paio di minuti. Non so che tipo di macchina sia, ma è molto grande.
Mi apre lo sportello, e lì un altro pezzo di me muore. Amo questi gesti, ma devo sempre ricordarmi che è il mio capo. Quello che mi ha detto prima potrebbe essere legato solo a un po’ di alcol in più. Ora lavoro con lui. Pochi istanti ed è accanto a me.
Accende l’auto e dalla radio nella macchina i Queen iniziano a suonare in sottofondo. Il silenzio della città che dorme ancora, la serata intensa, insomma, il miscuglio del tutto mi fa addormentare.
Non gli dico dove abito, ma poco dopo mi trovo davanti al portone di casa mia.
“Sofi, sveglia.” Sento un bacio leggero sulla guancia.
Mi lamento un po’ ad occhi chiusi. Un istante dopo sono poggiata sul suo petto senza nemmeno rendermene conto. Sto così bene, non ho voglia di muovermi nemmeno se il mondo iniziasse a sgretolarsi sotto i miei piedi.
Respiro a pieni polmoni il suo profumo, del quale vado pazza.
“Dobbiamo andare a casa,” lui sussurra.
Lamentandomi, faccio cenno di no con la testa. Sento che mi poggia di nuovo sul sedile. “Ok, ti porto in un posto, ma poi a casa senza fare storie, ok?” L’auto riparte. “So che mi senti, rispondi.”
“Ok, va bene.”
Non mi rendo conto di dove mi stia portando, continuo a sonnecchiare. Se fosse un serial killer, gli starei dando carta bianca.
Un po’ dopo lo sento di nuovo vicino. “Siamo arrivati, sveglia bambolina.”
Apro gli occhi, siamo al mare.
“Tieni il giubbotto, è freddo per te…” Mi apre di nuovo lo sportello. Apre il cofano della macchina e prende un termos. Sento l’odore del caffè.
“Prego, signorina, benvenuta al bar sulla spiaggia.” Mi porge un bicchiere con del caffè fumante e si siede dietro al cofano.
Il maglione disegna perfettamente ogni centimetro di pelle che c’è sotto, i jeans aderenti mostrano il resto del corpo.
Mi siedo accanto a lui, che guarda il mare.
Porto le ginocchia al petto, pensando che domani non mi alzerò nemmeno con le cannonate.
“A cosa pensi?” interrompe i miei pensieri, ma non posso dirgli realmente cosa stavo pensando.
“Nulla, mi piace qui.”
“Ci venivo a studiare per diventare avvocato. Di giorno seguivo le lezioni, poi lavoravo per pagarmi l’università e, ovviamente, dovevo studiare. Ecco perché sono qui.”
“Ottimo luogo per studiare.”
“Mare o montagna?”
“Montagna,” esclamo io.
“No! Mi deludi, rossa!”
“Ti piacciono i miei capelli?” gli do una bottarella con la spalla.
“Moltissimo.” Mi guarda fisso, io tremo un po’ per il freddo e un po’ per lui.
“Hai freddo?”
“Un pochino…”
Dobbiamo tornare a casa. Non ho voglia di incasinarmi con qualcosa che potrebbe creare problemi sia a me che a lui. Mi alzo.
“Andiamo.” Salgo in auto senza dargli il tempo di replicare.
“Andiamo,” esclama salendo in auto.
Guida in silenzio per un'ora, veloce e sinuoso. Mi perdo a guardarlo. Lascio anche che se ne renda conto; non mi importa, è troppo. È una di quelle persone che quando le hai accanto riesce a travolgerti.
Siamo a casa. Scendo senza voltarmi. Sento mentre cerco le chiavi del portone che lui scende dall’auto. Il silenzio dell’ora mi permette di rendermi perfettamente conto che si sta dirigendo verso di me. Mi sento la mano sulla spalla, ma prima che possa dire altro, sono già dentro al portone chiuso prontamente dietro di me, senza permettergli di entrare.
Sono le 8.
L’ufficio è ancora deserto. Alle 8:30 inizia ad animarsi. I primi arrivano verso le 8:15. Come sempre, entro in tutti gli uffici e apro le finestre, affinché gli avvocati trovino i loro uffici arieggiati.
Apro l’ufficio di Tina, poi vado in quello di Francesco.
Credo che in quel momento il mio cuore abbia perso un battito. Tina è di spalle alla porta, gambe allargate, e tra le sue gambe Francesco a pantaloni abbassati.
Beccati sul fatto. Sì, lo avevo immaginato, ma vederlo è diverso! Esco senza fiatare; lei non si è accorta di nulla… Era troppo impegnata! Lui mi ha visto. È stato un istante che...
Torno alla mia scrivania, mi lascio cadere sulla sedia con ancora il giaccone addosso. Accendo il PC. Credo di esserci rimasta male; pensavo che ieri sera volesse dire qualcosa, ma indubbiamente lui ha di meglio che me.
Prendo il telefono e mando una nota a Brenda, raccontandole quello che è successo. Pochi minuti fa, le avevo mandato una nota che praticamente quasi sanciva il matrimonio tra me e Francesco; ora quasi sto scrivendo il suo necrologio.
Brenda è la mia migliore amica, trasferita a Londra da sei mesi per diventare assistente di volo.
Poggio il telefono e vedo già il messaggio di risposta di Brenda, ma devo leggerlo dopo. Potrei passare ore al telefono senza concludere nulla.
Ho scritto tutte le convocazioni, le CTU, chiamato i periti. Sono le 11 e di Francesco nemmeno l’ombra. Si apre la porta e Ottavio, un po’ traballante, entra.
“Ehi, mi hanno detto che ieri sera sei stata grande!” mi viene incontro e mi abbraccia.
“Ma scherzi. Anzi, come stai?”
“Domani torno, ero passato solo a salutarti e ringraziarti!” continua a tenermi una mano dietro la schiena.
“Ottimo, dai che da sola non riesco,” rido.
“Ma ieri poi come hai fatto a tornare?” chiede.
“Mi ha riportato Francesco,” dico con voce quasi stanca.
“Sì, tranquillo Ottavio, ci ho pensato io a lei,” Francesco spunta dalla porta del suo ufficio, senza che io me ne accorga.
“Ottimo, io ragazzi vi ringrazio ancora e vi saluto,” si dirige verso la porta, “a domani.”
Francesco cerca di seguirmi nel mio ufficio; gli sbatto la porta in faccia.
“A meno che tu non la chiuda a chiave, sai che posso aprirla?” Entra, non curante del mio segnale inequivocabile di volerlo evitare. “Mi dispiace per stamattina, pensavo l’ufficio fosse vuoto.”
Sento le guance arrossire. “Sai che non devi chiedermi scusa per le donne che ti porti a letto… Non è affar mio. Non sono la tua donna e non cerco nulla da te.” Continuo a scrivere al PC.
Sono arrabbiata. Prendo il telefono e chiamo un perito con cui dovevo concordare un appuntamento. Francesco non si muove; è lì, spalle poggiate alla porta, che mi guarda.
Sento il suo sguardo addosso, fisso. Inizio a sentirmi quasi nuda. Non ha intenzione di muoversi di lì. Il suo inebriante profumo mi sta dando alla testa.
Mi alzo e apro un po’ la finestra, ho bisogno di aria.
“Devi andare via, non riesco a lavorare!” mi volto e gli vado incontro viso a viso, quasi a volerlo intimidire.
Mi prende il viso tra le mani. La nebbia, il buio.
“Credo tu non sia abituata a fare nottata; hai la pressione sotto le scarpe.”
Apro gli occhi e mi ritrovo sdraiata per terra con la testa poggiata sulle gambe di Francesco, che mi sventola con dei fogli.