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Capitolo 6

6

Un lampo nella mente di Stefano.

Stefano stava percorrendo la strada sterrata che costituiva una valida scorciatoia per raggiungere Cervinara a piedi.

Tuttavia la sua destinazione era diversa: mancava da molto tempo nella Selva, e la nostalgia per il luogo in cui aveva vissuto momenti dissoluti era diventata più vigorosa della sua naturale avversione per gli ultimi sviluppi che si erano verificati.

Ma non intendeva recarsi nella sua solita postazione, voleva vedere il casolare dall’altro lato, quello dell’entrata.

Come se volesse controllare che tutto fosse in ordine.

Quando vide la scritta sul muro comprese che l’armonia del suo luogo era stata violata. Ancora una volta.

Ma quanto è bello l’incularello, lesse. Non capì e ritornò a leggere il ritornello che nella sua mente vibrava in una maniera poco intonata.

Alla terza, o forse quindicesima, ripetizione comprese di non essere il solo a sapere cosa accadesse dentro le mura diroccate. Corse via con la velocità e lo sgomento di chi fugge a una belva feroce.

Accorciò il passo quando vedendo la strada capì di aver lasciato alle spalle la Selva, e tutto ciò che essa conteneva.

Non comprendeva, però, e non poteva essere altrimenti, le ragioni che avevano portato una mano birichina, e dotata di bomboletta, a scrivere una filastrocca sarcastica nelle intenzioni, tremenda negli effetti. Almeno per lui.

Era accaduto che il maschio dominante della coppia omosessuale aveva pensato di invitare qualche amico ad assistere allo spettacolo, pagando una cifra interiore al costo del biglietto del cinema col vantaggio di godere un’esibizione realistica, avulsa da finzione.

L’unico limite per chi volesse assistere consisteva nell’assoluto divieto di trasformare l’avvenimento in orgia. Nemmeno sborsando un supplemento qualcuno avrebbe potuto beneficiare del sedere di colui che giaceva nell’erba.

L’ideatore di quell’obbrobrio era stronzo e anche previdente, dunque.

In ogni caso l’iniziativa aveva avuto successo, consentendo allo stronzo di unire al diletto un utile in termini economici.

Ma agli avventori, accorsi anche da Cervinara, fattore scontato visto lo scarso numero di giovani residenti a Valle, si era aggiunto un incisore di frasi a effetto sulle mura pubbliche.

L’artista di strada, dotato di una discreta sagacia, aveva pensato bene di lasciare anche lui un segno indelebile, in realtà era solo riuscito a far sospendere per sempre le rappresentazioni pubbliche.

Stefano riprese la strada di casa all’oscuro di quell’accaduto, consapevole, però, di dover rinunciare alle sue incursioni nella Selva, divenuta troppo affollata per i suoi gusti.

Decise di prendere una pausa e aspettare il tempo necessario affinché la storia cadesse nel dimenticatoio e il casolare ritornasse a ospitare coppie. Meglio se etero. Ancora di più se prive di seguaci.

I pensieri gli tennero compagnia fino al vialetto che portava alla sua abitazione, camminando scorse Annamaria seduta su una poltrona di vimini sistemata al lato della porta di alluminio che fungeva da ingresso alla casa rurale della giovane.

Fu contento di notarla intenta a leggere. Non voleva che lei lo vedesse.

Stefano detestava manifestare ogni suo imbarazzo, soprattutto alle persone verso le quali provava affetto.

Il cancello della proprietà di Annamaria si trovava alla sua sinistra, lui si portò sulla destra fino al punto da sfiorare il muro che delimitava l’abitazione di fronte.

Credeva, con quella manovra, di passare inosservato, tuttavia non era così: se Annamaria avesse alzato gli occhi dal libro lo avrebbe visto.

Il vialetto era angusto. Ma lei rimase fissa sulla pagina e Stefano si dileguò.

L’uomo aprì la porta di casa sua convinto di aver evitato un grattacapo.

La madre che lo stava aspettando gli stava per consegnare un fastidio che nessun unguento avrebbe potuto acquietare.

La donna, sordomuta come il figlio, aveva ricevuto una visita da parte di una vicina che le aveva raccontato della povera Esterina Gallo, morta per avvelenamento.

Il loro dialogo, fatto di gesti incomprensibili per chi non conosce il linguaggio dei segni, fu serrato.

L’anziana donna raccontò a Stefano ciò che aveva appreso con gli occhi colmi di lacrime.

Chi soffre di menomazioni è dotato di una sensibilità maggiore rispetto alle persone normali.

È una regola che dimostra quanto sia perfetto il creato nella sue manchevolezze.

E mentre la donna strepitava, agitando le braccia, tutta la sua afflizione per un episodio impensabile, per lei e per una frazione fino a quel giorno avulsa da crimini, il figlio rifletteva.

Nella mente dell’uomo iniziò a prendere corpo una considerazione talmente sinistra da farlo barcollare.

Avvertì nella testa una luce poderosa come un lampo, al quale segue sempre il tuono.

Il boato lo stordì. Fu costretto a sedersi per evitare di cascare sul pavimento. La madre vedendolo cereo in volto chiese spiegazioni. A gesti.

«La conoscevi?»

Stefano scosse il capo.

«E allora perché sei diventato bianco?»

Stefano ripeté il gesto. Il primo cenno aveva rappresentato un secco no. Il secondo conteneva una risposta più articolata.

«Niente, niente. Non ti preoccupare.»

La donna annuì poco convinta, ma lo lasciò in pace. Conosceva suo figlio e sapeva quanto fosse ostinato nelle sue chiusure. Decise, come sempre, di aspettare che fosse lui a scegliere il momento opportuno per continuare il discorso.

Stefano salì al primo piano. Entrò nella camera da letto e si guardò intorno incerto sul da farsi. Si sentiva rincorso da una belva ancora più pericolosa di un felino affamato: perché nella giungla puoi anche sfuggire alla morte se corri veloce. Ignorare un pensiero che si è insediato dentro di te risulta perfino più complicato, e logorante.

Nella sua mente si ripeteva un ritornello meno musicale di quello che aveva letto sulle mura del casolare.

La morta lavorava alla Mursie. Non può essere vero quello che sto pensando.

Incapace di sopportare la stanza si affacciò al balcone in cerca dell’aria che lo sollevasse dal senso di claustrofobia appena avvertito.

Accese una sigaretta convinto che lo avrebbe aiutato a non pensare. Si sbagliava.

Mentre aspirava la nicotina ebbe la netta percezione che nei giorni a seguire la sua idea malsana non lo avrebbe abbandonato.

Questa volta aveva fatto centro. Il corso delle indagini, che lui avrebbe seguito con interesse, gli avrebbe dimostrato che la sua congettura era più solida di quanto temesse.

Nel mese seguente avrebbe vissuto la condizione più atroce che possa colpire un essere pensante: alternare, di continuo, la leggerezza che ti regala la convinzione di aver sbagliato pronostico all’agitazione per aver avuto ragione.

Perché il suo problema era come avrebbe dovuto agire se i suoi sospetti si fossero rivelati fondati.

Per molti trovarsi nella sua condizione avrebbe rappresentato un contrattempo, al massimo una scocciatura. Per come era fatto Stefano, no.

Lui era terrorizzato al solo pensiero di dover raccontare quello che sapeva ai carabinieri o alla polizia.

Nella sua immaginazione già si vedeva in manette, arrestato per falsa testimonianza e condannato a scontare anni di prigione.

Una preoccupazione senz’altro esagerata, tuttavia più che concreta per la persona che era.

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