Capitolo 2
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Il venerdì di Toracca.
Alberto Toracca viaggiava veloce alla guida della Stelvio verde, non era in ritardo ma gli piaceva correre. All’automobile, pure.
Da quando era stato trasferito a dirigere il commissariato di Cervinara ogni giorno percorreva la provinciale partendo da Montesarchio, paese in cui aveva scelto di vivere.
I due comuni distavano una decina di chilometri. Una nullità per quella macchina, sufficienti, però, a farle ritrovare la ragione di esistere dopo gli anni di inazione a Ischia.
Naturalmente non era quello il motivo principale della sua decisione, dettata, innanzitutto, dalla prospettiva di poter fare una passeggiata per le vie del centro che l’ospitava evitando il rischio di imbattersi in questioni lavorative anche in libera uscita.
Toracca raggiunse il parcheggio della stazione di polizia senza nessun pensiero particolare, lasciò il SUV nello spazio riservato e fece il suo ingresso nel commissariato.
Al posto di guardia trovò l’agente scelto Raia alle prese con una telefonata impegnativa, almeno a giudicare dall’impeto che ci stava mettendo nel rispondere, ma il poliziotto, vedendolo, coprì la cornetta e gli parlò, evidentemente la chiamata era di scarsa rilevanza.
«Dottore, buongiorno. L’Ispettrice Santucci sarà di servizio nel pomeriggio, mi ha detto di avvertirla, nella sala d’aspetto c’è Bocca di rosa, dice che deve parlare con lei.»
«Grazie, Marcello. Per entrambe le informazioni.»
«Dovere, Commissario.»
Il funzionario si avviò con passo lento. Seduto sulla panca d’acciaio del corridoio che portava al suo ufficio vide Pasquale Santaniello, da tutti in paese, e nel commissariato, soprannominato con il titolo di un brano preso in prestito da Fabrizio De André.
L’uomo, un sessantacinquenne alle soglie della pensione sociale, data la sua patologica avversione al lavoro, era un informatore particolare: non riferiva alla polizia per ottenere benefici, ma solo per vanità.
Toracca gli sorrise e lo invitò a seguirlo, una volta nella sua stanza lo fece accomodare, e lo salutò.
«Fabrizio, dimmi tutto.»
«Dottò, tenete sempre voglia di scherzare, beato a voi.»
«Non è vero. Sei tu che me la fai venire, mi sei simpatico e lo sai. Adesso canta, forza.»
«Allora, il quindicenne che è stato massacrato di botte perché è andato in calore ma ha scelto la gattina sbagliata. Il padre della ragazza non l’ha presa bene, lo ha portato sul Mafariello, prima lo ha riempito di schiaffi, poi lo ha legato a un albero, gli ha tirato giù i pantaloni e con un ramo gli ha pitturato di viola le chiappe e le gambe.»
«Lo so. Una cosa sola mi manca. Il giovanotto l’aveva violentata?»
«No. Per fortuna di quel cretino la figlia di Lucaioli è sveglia, mentre lui si sbottonava gli ha dato un calcio nelle palle e se n’è scappata. Meglio così, se riusciva a farsela non penso che finiva solo con qualche livido.»
«Chi te lo ha detto?»
«C’era un altro sul posto, che aspettava il suo turno. Mi ha raccontato la storia, non so perché.»
«Incredibile!» esclamò il Commissario «addirittura due fessi che ignoravano contro chi si stavano mettendo, comunque la vittima dice di non aver riconosciuto l’assalitore, per cui siamo al buio. A meno che tu non voglia accendere la luce. Ma non penso che lo farai. Giusto? Santaniello?»
«Certo, come voi comandate. Arrivederci, dottore.»
Toracca non fece commenti e seguì l’uscita dalla stanza dell’uomo che, senza saperlo, era stato il portavoce di Tommaso Lucaioli, figlio di Domenico, un piccolo ma pericoloso esponente della malavita locale, da tutti conosciuto come lo svedese. Soprannome dovuto allo sguardo glaciale. La passione per i fiammiferi Minerva. La facilità con la quale si accendeva. Proprio come gli zolfanelli da lui preferiti.
Il padre della ragazzina aveva ricevuto uno sgarro inaccettabile per qualunque capo famiglia, intollerabile per chi pur non avendo seguito le orme del genitore ha comunque un nome da difendere, oltre ad aver ereditato una ragguardevole razione di infiammabilità.
Il Commissario era al corrente della vicenda grazie alle voci che si erano diffuse in paese, secondo le quali uno sconosciuto aveva prelevato il giovane e, dopo averlo legato a un albero, denudato per poi riempirgli le gambe di lividi.
Toracca aveva sempre sospettato che tutti sapessero chi era stato, ma tacessero per timore di vendette. In realtà alla paura, comprensibile, si doveva aggiungere quella forma di rispetto che molti nutrono nei confronti dei malavitosi.
Non si soffermò su quella forma di stima inspiegabile, ma diffusa, e ragionò sull’ipotesi che Tommaso Lucaioli avesse avvicinato il complice della tentata violenza consigliandolo di raccontare l’accaduto a Bocca di rosa, giusto per ricambiare la cortesia di avergli risparmiato l’esperienza vissuta dall’amico.
Il figlio dello svedese aveva agito in quel modo poiché sapeva che Santaniello sarebbe andato di corsa da lui, che avrebbe compreso come indagare sulla vicenda avrebbe significato tempo sprecato.
Toracca archiviò con la mente il procedimento relativo alla denuncia per aggressione contro ignoti, aggiungendola ai fascicoli dei casi irrisolti.
Subito dopo iniziò a riflettere sul come si sarebbe comportato se un fatto del genere fosse capitato a lui. Se qualcuno avesse tentato di violentare la figlia avrebbe reagito da padre o da poliziotto?
Durante tutta la sua vita aveva sempre considerato le ritorsioni gesti sbagliati. Quell’accaduto aveva messo in discussione una delle poche certezze che aveva.
Ripensò al suo idealismo, in particolare da ragazzo quando studente delle medie aveva difeso un compagno di classe dalle angherie di un loro coetaneo.
Usando le maniere rudi, unica forma di comunicazione comprensibile per i prepotenti, aveva convinto lo spaccone a calmare i bollori e, quindi, ponendo fine alla persecuzione.
Tuttavia il giovane da lui aiutato non aveva espresso gratitudine, e non solo nell’immediato, ma anche negli anni a seguire, mostrando imbarazzo ogni volta che lo incrociava.
Ma perché? Per la difficoltà nel dover accettare la propria debolezza? O la fine delle vessazioni lo aveva spogliato del ruolo di martire al quale, in fondo, era votato?
Esisteva la concreta possibilità che entrambe le ipotesi si sovrapponessero.
Pensò al nonno materno, Francesco. Insegnante di musica e sostenitore dell’armonia concettuale, l’unico al quale aveva confidato l’accaduto e che gli aveva fornito il proprio parere sull’atteggiamento tenuto dal ragazzo da lui difeso. Ricordò le parole del vecchio avo, coerenti col suo modo di pensare.
«Esistono persone capaci di considerare quanto male siano disposte a fare pur di far vincere il bene. Tu fai parte di quella categoria. Il tuo compagno di classe no.»
Il volto dell’anziano parente invase i pensieri di Toracca, distinguerlo con tale nitidezza gli ricordò sua madre, ormai ottantenne, che non vedeva da due anni.
La telefonava ogni giorno promettendole una visita che non intendeva fare, perché lei ricordava troppo colui che gli mancava più di tutti, e che dal genitore aveva ereditato l’avversione ai luoghi comuni.
Entrambi sostenevano, infatti, che volere è potere è un’asserzione di una pochezza insopportabile, e, come qualsiasi modo di dire, noiosa quanto le sonate di Bach
Per non cadere nella mestizia preferì pensare al lavoro e ricordò la comunicazione di servizio dell’agente Raia.
Talia Santucci, dunque, aveva cambiato turno, lo faceva spesso, quasi a voler evitare di stare con lui più del consentito.
Da quando aveva preso servizio a Cervinara tra loro non c’era mai stata intesa, solo rapporti formali. La donna era una poliziotta esperta, la più alta in grado dopo di lui, ma aveva impostato una collaborazione sincera solo dal punto di vista professionale.
I loro dialoghi erano privi di familiarità, e questo a lui non piaceva, anche se non aveva fatto nulla per evitarlo.
Il ronzio del telefono interno lo riportò alla realtà, sollevò la cornetta e ascoltò la voce del collega.
«Dottore, le ricordo che alle nove c’è la riunione in Municipio.»
«Grazie, stavo per andare.»
«Faccio preparare l’auto?»
«No. Preferisco a piedi.»
Ma che cazzo di domanda è? Pensò. Il Comune è così vicino che se mi affaccio alla finestra lo vedo.
Quando si rese conto che la riflessione gli aveva impedito di agganciare rimediò all’errore riprendendo la conversazione.
«Ferretta è in servizio?»
«Sì. C’è anche l’Ispettore Grieci.»
«Perfetto, avvertili tu che dovranno fare a meno della mia presenza. E digli di non esultare, perché tornerò, anche se zoppicando per la rottura di palle sarò di nuovo a casa.»
«Agli ordini, dottore, le faccio notare, però, che quando lei non c’è qui nessuno gioisce.»
«Sì, sì. Ho la cornetta inumidita dalla tua sincerità. Ci vediamo più tardi, Raia.»
Toracca abbandonò l’ufficio e uscì per partecipare all’incontro fissato dal Prefetto.
Raggiunse il Municipio in pochi minuti. Entrò nel palazzo con la certezza di dover partecipare a un convegno utile solo per le interviste che sarebbero seguite.
Le solite dichiarazioni di facciata che avrebbe rilasciato alla stampa locale la massima autorità provinciale di pubblica sicurezza: Sua Eccellenza il Prefetto, che alla presenza del primo cittadino di Cervinara e dei comandanti delle forze di polizia, illustrò lo stato dell’arte nella lotta alla criminalità nella provincia di Avellino, in particolare nella Valle Caudina, dove, a suo dire, l’incidenza dell’illegalità era collocabile a livelli fisiologici.
Dopo un’ora e mezzo di interventi colmi di numeri, a volte gonfiati, sull’attività investigativa e di prevenzione da parte dei tutori della sicurezza pubblica e privata il rappresentante dello Stato sciolse l’assemblea e concesse il suo volto sorridente alle telecamere.
Il Sindaco chiese a Toracca di accompagnarlo in ufficio prima di andare via. Era loro consuetudine scambiare qualche opinione ogni volta che potevano, e il professore Silvestro De Cesare, docente di educazione artistica in pensione, approfittò dell’occasione.
I due erano legati da una simpatia che condividevano fin dal primo momento in cui si erano conosciuti.
Entrarono nella stanza del primo cittadino. Il Commissario notò per l’ennesima volta la discordanza esistente tra l’enormità della scrivania sindacale e la figura minuta che le sedeva dietro.
Il suo sguardo, però, colse anche un altro particolare: appeso alla parete faceva bella mostra un quadro che non aveva visto in precedenza.
L’autore dell’opera gli confermò l’impressione.
«L’ho appeso da poco. Rappresenta uno scorcio del paese. Che ve ne pare?»
«Tutto in bianco e nero tranne la coccinella nel cespuglio. Perché?»
«L’artista risponderebbe che lo scopo è quello di far sì che un insetto minuscolo sovrasti un intero paesaggio. La verità è meno romantica e più prosaica: mi era rimasto solo il rosso.»
Il sorriso di Toracca fu un misto tra divertimento e ammirazione. E rispettando quelle due emozioni gli rivolse un’ulteriore quesito.
«Mi dica allora. Chi si è annoiato di più durante la riunione? L’uomo o il pittore?»
«Entrambi, e nella stessa misura. Diciamo che apprendere quanto siano diminuiti i furti negli appartamenti mi ha fatto pensare a come si sentiranno, quando lo sapranno, i pochi sfortunati a cui hanno svaligiato la casa.»
«Considerazione scettica, ma colma di senso pratico.»
«Caro Commissario, i politici amano il pragmatismo. I burocrati la forma.»
«Io rientro nella seconda categoria?»
«No. Voi siete il colore che manca nel dipinto.»
«Sindaco, le farebbe piacere disegnare un quadro per me. Glielo pago, ovvio.»
«Non ho mai venduto una mia opera, e non intendo cominciare con voi. Che preferite?»
«Lascio a lei la scelta, disegni quello che le viene meglio, o quello che più le piace, che poi è la stessa cosa.»
«Sarà fatto. Mi ci vorrà almeno un mese, però.»
«Non ho fretta.»
I due si alzarono all’unisono e si strinsero la mano sorridendo.
Il responsabile, pro-tempore, del Comune di Cervinara, lanciò un’ultima domanda all’amico poliziotto.
«Commissario, non vi manca Ischia?»
Toracca rispose mentre percorreva la sala verso il corridoio che portava all’uscita.
«Professore, l’ha detto lei prima. Io sono come la coccinella della sua tela, quindi mi adatto a ogni contesto.»
Una volta in strada però, il riferimento all’isola lasciata da poco gli ricordò qualcosa. Qualcuna.
Digitò il contatto senza pensarci più di tanto. Rispose una voce penetrante.
«Alberto, ma che piacere sentirti.»
«Valentina, come va la vita?»
«Benissimo. Ieri ho superato il mio record di permanenza sulla Terra. Esisto da cinquantatré anni consecutivi e ancora mi tranquillizza vedere un aereo in volo perché so di non essere una passeggera. Grazie per il messaggio di auguri, anche se per me, come ben sai, il compleanno non è un giorno di festa.»
«Già. Noi due ci conosciamo bene. A volte penso che abbiamo parlato più di quanto avremmo dovuto, e fatto l’amore meno di quanto avremmo voluto.»
«Affetti collaterali?»
«Noto con piacere che nonostante il tempo scorra nefasto il tuo cervello non ne risente.»
«Alberto, quando verrai a Ischia?»
«E tu a Cervinara?»
«Mmh. Mi metti in crisi.»
«Perché?»
«L’altro giorno pensavo a quanto sia forte l’assenza di te. Sai, ogni volta che ci incontriamo è come rivedere qualcuno che pensavo di aver perso per sempre. E non è tutto: lontana da te mi sento come uno sfilatino in una busta che farebbe fatica a contenere una rosetta.»
«E quando stiamo insieme?»
«L’involucro diventa troppo più grande di me.»
«Sei sempre dolcissima. Tua sorella come sta?»
«Ottima domanda. Proverò a rispondere anche se è difficile descrivere il disagio psichico. Diciamo che Ludovica è ritornata nel bozzolo.»
Alberto ebbe un attimo di esitazione, poi parlò.
«Credo di non aver compreso la metafora. Puoi essere più esplicita?»
«Lei è inconsapevole di odiare chi ha ucciso sua figlia perché lui l’ha obbligata a farlo. Ed è un bene. Quasi sempre l’ignoranza è una benedizione. Dico questo perché l’assassino di Irene mi è morto dentro, per cui non riesco nemmeno a disprezzarlo.»
Alberto conosceva, per esperienza, le conseguenze che una morte genera nelle persone a cui viene sottratto un affetto.
Ognuno ritiene di aver vissuto il giorno più brutto della propria vita quando ha saputo. In realtà è il contrario, poiché tutti quelli che vengono dopo risultano peggiori. Tuttavia evitò di esprimere la sua visione. Sarebbe stato inopportuno, oltre che superfluo. Preferì cambiare argomento.
«Appena avrò un giorno libero verrò da te.»
«Ci conto. Non vedo l’ora di apprezzare ancora una volta la tua durata.»
«Sarà per il mestiere che ho scelto, ma dover ricorrere al rito abbreviato mi spaventa.»
«Un bacio, Alberto.»
Toracca chiuse la conversazione e ritornò in ufficio. La giornata gli sembrò più gradevole di quanto avesse previsto. Parlare con Valentina gli provocava sempre quell’effetto.
Loro non erano semplici innamorati. Ognuno dei due rappresentava per l’altro uno stato d’animo, eppure nessuno aveva mai insistito affinché la loro relazione abbandonasse la precarietà. Misteri dell’amore.
Il turno di servizio trascorse nella più totale quietudine, nessun evento fragoroso intervenne a scuoterlo dal torpore.
Alle due del pomeriggio Toracca lasciò il commissariato e fece ritorno a casa.
Una volta entrato nell’appartamento di via Benevento scoprì, per la milionesima volta, quanto gli mancasse non essere accolto da Ombra.
La gatta che aveva dovuto lasciare a Ischia in quanto refrattaria ad affrontare anche il più breve viaggio in auto. La decisione era stata dolorosa ma averla affidata alla donna che l’adorava quanto lui aveva attenuato il dispiacere. Non il ricordo di lei.
Si distese sul divano del salotto e accese il televisore. Non aveva appetito e iniziò a dormicchiare grazie al sottofondo delle voci di giornalisti che discutevano di politica, un argomento che lo interessava poco, o nulla.
Il sonno divenne profondo, talmente intenso da proiettarlo in un sogno che lo trasportò in un salone enorme, illuminato da lampadari a gocce e pieno di persone che si muovevano frenetiche.
L’unica figura immobile era una donna dal volto sfocato seduta su un divano enorme e accogliente.
Il sorriso licenzioso che le attraversava le labbra era visibile, però. Poi la vide sfilare le mutandine e adoperarle per avvolgere una ciambella cosparsa di zucchero a granelli.
Quando la donna gli porse il dessert Toracca pensò di dover assaporare un dolce abbellito dal profumo dell’inguine di lei.
La cosa lo intrigava ma scelse un’alternativa ancora più stuzzicante: tiro fuori il membro, lo inanellò nel dolce e poi la imboccò.
Lei si aspettava altro ma accettò lo stesso. Ancora seduta, gli cinse il sedere con le mani e scoprì l’esistenza dello sperma candito.
Il tutto avvenne tra il via vai dei presenti, per nulla interessati all’evento.
Eppure l’uomo sentì dei sussurri, provenivano dalle mura della stanza. Il brusio divenne sempre più poderoso. Incalzante. Come se le pareti intendessero esprimere tutto il loro disappunto.
Toracca si svegliò con un sussulto. Aprì gli occhi e resosi conto di essere tornato nella vita reale borbottò un commento.
«Mai vista in vita mia, però ho apprezzato il suo deglutire senza fare rumore.»
Non fu in grado di stabilire quanto la riflessione fosse stata causata dal disagio che gli aveva lasciato l’inquietante vocio che aveva accompagnato il finale della sua prestazione.
Cercò di interpretare il sogno e comprese, o credette di farlo, che fosse un conseguenza per aver ricordato l’assassinio della nipote di Valentina.
Nella salone dove si era consumato quell’atto immondo le mura di sicuro avevano strillato la loro contrarietà. L’autore del delitto le aveva ignorate, però.
Qualcuno ha detto che gli occhi di chi fa piangere gli altri si riempiranno di lacrime. Può essere, ma il dolore inferto a chi voleva bene a Irene non contemplava baratti.
Allontanò quei pensieri da sé, poi decise di mangiare. Ogni amplesso gli regalava in lascito un dolce languore, e quello che aveva appena vissuto in sogno era stato concreto.
Il pomeriggio non prevedeva impegni, pensò, quindi, di spendere il suo tempo libero concedendosi una passeggiata a piedi. Quando giunse nella piazza principale del paese si fermò a osservare la chiesa dell’Annunziata. Guardandola ricordò il piacevole scambio di vedute avuto tempo addietro col parroco, don Edoardo, al quale aveva evidenziato le tante contraddizioni del cattolicesimo. L’atteggiamento incomprensibile dei papi durante il periodo dell’inquisizione.
Il prete gli aveva chiesto cosa cercasse davvero. La sua risposta era stata ironica.
«Sto indagando sul più astuto latitante della storia: Dio. Mi piacerebbe trovarlo, giusto per ascoltare il suo parere.»
La replica del sacerdote molto meno.
«Lo troverà quando smetterà di considerarlo come un ombrello che ci ripara da ogni male. Per quanto riguarda la seconda osservazione sappia che dire una verità in anticipo è pericoloso, dirla centinaia di anni prima è pura eresia. Molti pensatori sono finiti sul rogo perché hanno dimenticato quanto è bella un’arancia prima di sbucciarla.»
Non aveva ribattuto. La metafora del frutto gli era servita per comprendere i motivi per i quali il cristianesimo aveva sempre assegnato un tempo, talvolta eccessivo, a ogni innovazione.