Capitolo 1
Un venerdì. Annamaria.
Da quanto tempo correva? Non lo sapeva. Poteva resistere ancora? Quanti secondi la separavano dal cadere annientata sopra la terra umida? Questo le sembrò il pronostico più semplice, e con maggiori possibilità di riuscita. Eppure la cosa migliore da fare era non pensare, e continuare a fuggire. In lontananza sentiva l’abbaiare dei cani.
Lei era scalza e quasi nuda, ma non avvertiva l’umidità che la rugiada distribuiva nell’aria, nemmeno i colpi dei rami che le graffiavano la pelle e le gambe. E neanche le pietre che avrebbero dovuto infilarsi nella pianta dei piedi. L’unica conseguenza della sua corsa disperata erano i polmoni che le ardevano come una caldaia al punto di esplodere per l’eccessivo carico
Poi l’impatto col filo spinato. La pelle lacerata che iniziava a sanguinare. I suoi inseguitori che aumentavano l’intensità dei latrati.
L’ululare del branco era sempre più netto, segno che loro la stessero per raggiungere.
Usò le ultime forze che le restavano per sollevare il recinto e trascinarsi verso la cunetta confinante col terreno. Meglio morire nella melma che divorata da bestie inferocite.
Ma al di là del canale vide la strada. La salvezza forse? Riuscì a mettersi in piedi, raggiunse la carreggiata e iniziò a camminare come una sonnambula.
Fece pochi passi, poi sentì un rumore metallico. Si voltò di scatto e vide due luci rotonde, e giallognole. L’automobile la investì. Distesa sul ruvido dell’asfalto osservò il veicolo frenare e iniziare la marcia indietro.
«Cazzo! Tutta fatica sprecata.» Mai necrologio fu più sintetico, ed esauriente.
Annamaria sbarrò gli occhi e si sedette nel letto come spinta da mani invisibili. Aveva appena sperimentato come i sogni possano ribellarsi a chi li vuole sempre dolci.
Il suo corpo era fradicio di sudore. Il cuore batteva all’impazzata. Lasciò il letto e andò in bagno: doveva cancellare le tracce lasciate sul suo corpo dal sogno.
Dopo la doccia, e un lavaggio accurato dei capelli, ancora più appiccicaticci della pelle, si vestì.
Indossò la divisa da lavoro, ovvero gli abiti del giorno precedente. Pantalone marrone e maglia felpata, più o meno della stessa tinta.
Gli indumenti, di un paio di taglie superiori al dovuto, avrebbero consegnato alla visione altrui l’immagine di una donna insignificante. In realtà lei sceglieva quell’abbigliamento poiché poco interessata a evidenziare il suo fisico.
Annamaria viveva a Valle, una frazione che distava più di cinque chilometri dal comune di appartenenza, una lontananza adeguata a giustificare il desiderio degli abitanti di costituire un municipio a sé stante.
Aspirazione destinata a naufragare poiché l’estensione del territorio, notevole, urtava con l’esiguo numero di anime che lo popolava.
Condannati a rimanere un’appendice di Cervinara, nessuno ne soffriva più del dovuto. Nel loro animo si sentivano vallesi, e questo li accontentava a sufficienza.
Uscì di casa senza fare colazione e si incamminò verso il paese di cui era cittadina solo sulla carta e dove lavorava come addetta alle pulizie domestiche.
Il venerdì era dedicato alla casa dello zio Alfonso, che abitava a San Marciano. Un rione di Cervinara.
Avrebbe impiegato mezz’ora per giungere a destinazione, eppure non era preoccupata.
Per lei camminare a piedi significava libertà, un’emozione in grado di attenuare la stanchezza.
Lasciò la sua abitazione e costeggiò il campo di calcio poco distante, poi percorse la strada principale e camminò per qualche chilometro. Adagio.
Quando raggiunse il centro abitato di Cervinara prese una stradina laterale e tagliò in direzione della chiesa del quartiere. Lo zio abitava poco più avanti.
La dimora che l’attendeva dava sulla strada. Annamaria giunse davanti alla porta d’ingresso senza abbandonare il marciapiede, bussò al campanello e attese che le venisse aperto.
Sentì i passi nel corridoio, quindi una figura imponente e barbuta occupò l’uscio.
L’uomo, alto e robusto, occhi neri e capelli scuri vigorosi quanto il fisico la guardò e si voltò: era il suo modo di accoglierla in casa.
La ragazza gli lanciò un buongiorno destinato a perdersi nella scia del parente, il quale, però, rispose con un suono inintelligibile.
Lui salutava così. Lo faceva con tutti, amici e parenti compresi. Non amava perdersi in chiacchiere, tranne specifiche occasioni.
Il padrone di casa andò nella stanza matrimoniale e le lasciò l’appartamento libero dalla sua presenza, per non intralciare il lavoro. Annamaria iniziò l’opera con il solito zelo, abbinato all’entusiasmo.
Riportò la casa allo splendore originario in un paio d’ore, senza pause o interruzioni. Suo zio restò seduto per lo stesso periodo, con modalità identiche.
Quando ebbe terminato entrò nella stanza da letto, che sapeva dover purificare da ultima, con un fervore questa volta condiviso anche dal padrone di casa.
Si avvicinò alla sponda del letto e slacciò la cinta dei pantaloni, poi li sbottonò. L’indumento cadde giù con lentezza.
Alfonso lasciò la poltrona e iniziò a camminare avanti e indietro, eccitato dalla soavità degli abiti quando scivolano sul corpo di una donna che si sveste.
Annamaria abbassò gli slip e scoprì il sedere. Le natiche assomigliavano alla scultura di un artista abile nel raffigurare la pienezza delle forme.
L’uomo osservava ogni dettaglio. La pelle liscia. I glutei sporgenti. La carne chiara, e giovane.
Il bordo della felpa copriva la parte superiore del fondoschiena della ragazza, lasciandolo scoperto a metà.
Quella visione lo provocò ancora più. Abbassò la cerniera dei pantaloni, si avvicinò a lei, poi pronunciò un’intimazione.
«Mettiti in posizione.»
Lei ubbidì e si distese sul letto di traverso, con la faccia su una sponda e i piedi su quella opposta. Suo zio, ancora in piedi, iniziò a massaggiarle il didietro, con la sua smodata rozzezza. Per dissimulare il piacere le mormorò una spiegazione non richiesta.
«Così ti preparo.»
Era falso e Annamaria lo sapeva. Ignorava, però, che suo zio agiva in quel modo per conferire aggressività ai preliminari e, quindi, evitare di consumare un rapporto che contenesse anche un minimo di tenerezza.
Quando l’uomo decise che i due corpi potevano unirsi entrò con vemenza, poi scivolò fino in fondo con facilità.
Annamaria sussultò per la rapidità della sodomia. Lo zio invece di iniziare il movimento avviò il suo delirio.
«Mi dovresti ringraziare. Se volevo ti avrei sverginata. Ti sarebbe piaciuto lo stesso, ma lo dovrà fare chi ti sposerà. Sono sicuro che rimarrai zitella, però non si sa mai.»
A quelle parole sferzanti seguì un’ulteriore pressione. Lui voleva penetrarla ancora di più, ma le leggi della materia lo impedirono.
Allora continuò in quello che lui, a torto, riteneva un supplizio per la ragazza sopra la quale riversare la sua vendetta trasversale, e postuma.
«Non dici mai niente, non parli. Ma so che ti piace.»
Sempre fermo dentro di lei proseguì nella sua esaltazione, accompagnato dal silenzio assoluto della sua vittima.
«L’altro giorno ho pensato a come ti vesti. Sembri un sacco di patate.»
Proferiva quelle brutture per negare a sé stesso quanto lei gli fosse entrata nella mente.
«Lo senti quanto è grande?»
Annamaria non tradusse in parole il suo pensiero. Lo fece per privarlo della soddisfazione che gli avrebbe dato sapere che lei, sia pure in misura ridotta, provava piacere.
Negli ultimi mesi, a differenza degli incontri iniziali, aveva anche raggiunto una sorta di orgasmo. Ma lui non se n’era mai accorto.
«Come sempre non fiati e te lo godi. Brava. Così si fa. Una donna meno parla, meglio è. A proposito, tua madre sta bene?»
Annamaria mosse il capo con un cenno di assenso, mentre lui proseguiva nel discorso.
«L’ho vista qualche giorno fa. È invecchiata.»
All’improvviso, senza una ragione precisa, l’uomo sancì la fine della conversazione a una voce e ricordò alla nipote quello che stavano facendo.
Senza alcun preavviso cominciò ad andare avanti e indietro. Con lentezza perfino eccessiva, ma poi il movimento acquisì una velocità sensuale, quasi oscena.
Giunto alle soglie dell’orgasmo placò i bollori e riconsegnò una cadenza moderata alle sue spinte.
Annamaria sentiva il membro scorrere nel suo sedere in tutta la sua robustezza. Non fu in grado di resistere e si lasciò andare al piacere. Ma lo fece senza alterare il respiro.
Lei era in grado di vivere con tranquillità anche i momenti più frenetici.
Suo zio no, lui si lasciò travolgere dal calore che sentiva dentro e ricominciò a colpire duro.
«Mi piace il culo» le sussurrò in un orecchio ciò che somigliava a un urlo.
«Molte donne si rifiutano.»
Si riferiva alla moglie defunta. Annamaria lo sapeva bene.
I movimenti divennero spasmodici, intervallati dalle frasi dell’uomo che sembravano sconnesse.
«Te lo sfondo.» E giù un colpo.
«Arrivo.» Altra spinta.
Alfonso avvertì l’imminenza dell’orgasmo e, di riflesso, cinse il ventre della ragazza con le mani. Sentire i peli del pube sotto i polpastrelli lo esaltò.
Produsse una serie di suoni ininterrotti e profondi, poi scrosciò dentro di lei e il silenzio ritornò a impadronirsi della stanza.
L’uomo, quale ultimo oltraggio, le pizzicò una natica. Il sedere rimase eccezionale nonostante il rossore provocato dall’ulteriore sopruso ricevuto.
La voce imperiosa dell’uomo pose fine all’amplesso.
«Tirati sopra i pantaloni e vattene da casa mia.»
La ragazza si alzò dal letto e andò via pensando a quanto lui diventasse ancora più intrattabile dopo il piacere. Dopo essere arrivato, come diceva lui.
Avrebbe scoperto, a distanza di molti anni, l’esistenza di un termine più delicato per definire l’orgasmo e, di conseguenza, che quell’uomo riusciva a essere brutale anche con il lessico.
***
Annamaria, per niente scalfita da quanto accaduto iniziò a percorrere, a ritroso, la strada che l’avrebbe riportata nella sua piccola porzione di universo: Valle.
Durante il tragitto pensò allo zio, che era stato sposato con la sorella di sua madre.
Rosaria, la quale aveva avuto la pessima idea di lasciare il mondo prima del tempo, privandosi, di fatto, della gioia di scoprire come il marito, con l’avanzare dell’età, avrebbe perfezionato i propri difetti.
Le sue riflessioni non andarono oltre. Lei non sapeva niente della vita di suo zio. Ignorava che Alfonso Terracciano, o Fonsone, oppure il Selvaggio, come lo chiamavano gli amici intimi in sua assenza, doveva quei soprannomi al fatto che, da ragazzo, mentre lavorava nei campi era stato punto da un calabrone che, attratto dal sudore, si era avvicinato troppo al suo avambraccio. Lui aveva cercato di allontanarlo e l’insetto, per reazione, gli aveva infilato il pungiglione nella carne.
La puntura aveva generato, agli occhi dei compagni di lavoro, la sensazione di assistere, in tempo reale, alla crescita istantanea di un bozzo simile a un cratere.
Alfonso Terracciano, giovane e aitante agricoltore, non si era scomposto e aveva continuato a lavorare senza nemmeno sciacquare la parte interessata. Il gonfiore sarebbe sparito dopo qualche giorno, senza lasciare nessun’impronta del suo passaggio.
Annamaria era all’oscuro del fatto che il Selvaggio fosse stato innamorato di Assunta, sua madre. Che l’avesse chiesta in sposa senza successo poiché il futuro suocero gli aveva imposto di accasarsi con la sorella maggiore, Rosaria. Lui, zotico ma non stupido, aveva dovuto accettare la prescrizione conscio di non avere alternative.
Se anche si fosse rifiutato e avesse deciso di aspettare che qualcun altro sposasse la donna a lui proposta in dote Assunta non sarebbe mai stata sua. Il nonno di Annamaria superava, se possibile, suo genero per aggressività e non avrebbe tollerato il mancato assenso.
Alfonso aveva sempre odiato il suocero per questo motivo, ma non aveva trovato vendetta. Il livore covato per anni lo aveva reso ancora più scorbutico, e adesso aveva trovato la persona da castigare. La ragazza sulla quale, e dentro la quale, riversare la sua rappresaglia.
Tuttavia la verità era un’altra: lo zio acquisito aveva intuito che sotto una capigliatura mai acconciata a dovere si nascondeva un viso tondo e armonioso che gli ricordava quello di Assunta da giovane.
Aveva intravisto in lei la possibilità di scoprire se il corpo, occultato dagli abiti troppo abbondanti, fosse formoso quanto il volto, con i suoi occhi neri abbelliti da ciglia lunghe, naso piccolo e labbra carnose.
Il suo istinto animalesco gli aveva consentito di comprendere, soprattutto, quanto fosse introversa Annamaria, quindi una facile preda.
Per questo aveva deciso di carpire a lei ciò che gli era stato negato in precedenza.
Tuttavia fin dal primo momento era rimasto abbagliato dalla sensualità della nipote e per non ammetterlo nemmeno con sé stesso aveva giustificato il suo comportamento ritenendolo un castigo che suonava a rivincita.
La ragazza tutte queste sfumature non le conosceva, e, di sicuro, anche se informata non avrebbe cambiato il suo atteggiamento.
Lei, fin da piccola, aveva sempre tollerato le imposizioni, e non aveva mai perso quel tratto distintivo del suo carattere, nemmeno quando i genitori si erano rifiutati di mandarla alle superiori sostenendo che il diploma non serve a nulla in un’impresa di pulizie.
Esistono persone a cui piace apparire, altre che temono si parli di loro anche se solo nella ristretta cerchia degli amici o parenti.
Annamaria non apparteneva a nessuna delle due categorie, lei desiderava soltanto che la sua vita trascorresse inavvertita. Non tanto dal resto dell’umanità, quanto da sé stessa.
Temeva dover decidere, preferiva lasciare l’incombenza agli altri. O al destino.
Presa dai suoi pensieri si ritrovò a Valle, davanti al sale e tabacchi posto all’incrocio con la stradina che portava a casa sua.
All’ingresso del negozio stazionava Stefano, che l’aveva vista e si era fermato ad aspettarla.
L’uomo, un sordomuto che abitava a pochi metri da lei, le sorrise e, con lo sguardo, la invitò a seguirlo nella tabaccheria.
Entrarono insieme nella rivendita dove lui comprò le sigarette e un pacchetto di caramelle a menta che consegnò alla ragazza, poi uscirono e percorsero affiancati la via che li avrebbe ricondotti alle loro case.
Gli arbusti ai lati della strada videro sfilare davanti a loro un sessantenne magro, calvo e dallo sguardo acuto che sorrideva come un adolescente mentre gesticolava rivolto alla compagna di viaggio, la quale annuiva anche se non comprendeva del tutto ciò che lui le comunicasse.
Una storiella? O solo quanto gradisse la loro vicinanza? In realtà le stava manifestando il suo attaccamento, perché lui le voleva bene. Davvero.
Stefano camminava veloce e raggiunsero in un lampo l’abitazione di Annamaria.
Una volta davanti al cancello lui la salutò regalandole l’ultimo sorriso della giornata, ma prima di scappare verso casa sua si portò l’indice della mano destra sulla guancia e lo fece roteare.
Le aveva chiesto di pensarlo quando avrebbe mangiato le caramelle. Se avesse conosciuto il linguaggio dei segni gli avrebbe risposto che la raccomandazione era superflua.
Quell’uomo non si limitava a far parte della sua vita, era l’unico a donarle tenerezza.
Annamaria varcò il cancelletto e attraversò il cortile popolato da qualche gallina, un cane e una famiglia di gatti che vivevano in assoluta sintonia tra loro, ognuno rispettoso degli spazi altrui.
Quando entrò in casa avvertì l’inutilità di un ambiente enorme abitato da una sola persona.
I suoi erano al lavoro nei campi e gli altri quattro figli, tutti più grandi di lei, vivevano al Nord.
La costruzione, adatta a ospitare sette persone, era diventata eccessiva visto che il resto della famiglia o non c’era mai, oppure, come nel caso dei fratelli, l’aveva abbandonata definitivamente.
Prese un fiammifero e diede vita al bruciatore della cucina. Poi riempì di acqua una pentolina e aspettò che bollisse.
Doveva solo aspettare che i maccheroni cuocessero, nel frattempo avrebbe riscaldato il sugo che sua madre aveva preparato la sera precedente e, una volta tutto pronto, si sarebbe concessa il piacere di mangiare la pastasciutta accompagnata dal pane.
Mentre attendeva la naturale evoluzione del ciclo di cottura già pregustava il sapore della pasta unita alla mollica.
Adorava quel tipo di alimentazione che la saziava e le risparmiava l’incombenza di dover pensare, e cuocere, un secondo.
Terminato il pranzo sparecchiò e andò a lavarsi i denti. Era maniacale, ma lo faceva per evitare di dover ricorrere al dentista.
In piedi davanti allo specchio del lavandino ignorò, come sempre, il suo volto.
Se si fosse soffermata almeno un istante avrebbe notato che la natura era stata gentile con lei.
I capelli, scuri quanto le pupille, avrebbero costituito il suo pezzo forte se solo avesse scelto di pettinarli ogni tanto.
Tuttavia dopo averli lavati li lasciava asciugare all’aria.
Riteneva superfluo acconciarli con la spazzola perché aveva sempre accantonato qualsiasi abitudine che la potesse rendere schiava. Compresa quella di pettinarsi.
Quando terminò di sciacquare i denti decise di godersi l’aria primaverile e uscì per dirigersi al campetto di calcio che distava uno sguardo da casa sua.
Dalla finestra aveva visto che c’erano dei ragazzini impegnati a giocare con la foga di chi aveva atteso quel momento da molti mesi.
Prese posto sul cemento degli spalti e divenne l’unica spettatrice della partita di esordio per la stagione che stava per iniziare.
Seguì con interesse la prestazione dei giovani calciatori anche se quello sport non l’attraeva, in realtà era più interessata alle grida che accompagnavano l’impegno dei contendenti.
La divertiva constatare con quanta serietà affrontassero la gara. Li conosceva tutti e pensò, con una punta di tristezza, che in quel rettangolo di gioco era presente la fanciullezza di Valle nella sua totalità.
Cacciò via la riflessione malinconica sostituendola con la considerazione che l’angolo di mondo nel quale aveva avuto la fortuna di nascere doveva la sua rassicurante tranquillità allo scarso numero di anime che lo popolavano.
Annamaria, da tutti considerata stupida, era una ragazza intelligente, ma teneva celate le sue analisi.
Non amava parlare: per inclinazione naturale e mancanza di interlocutori.
La partitella tra amici era terminata. Annamaria non conosceva l’esito e non chiese il risultato ai ragazzi che le sfilarono davanti
Li vide stanchi e non voleva aggiungere spossatezza facendo confessare la sconfitta a qualcuno di loro.
Restò sola ma non ritornò a casa. Scelse di aspettare il ritorno dei genitori dal lavoro seduta a godersi il fresco della primavera per un’altra ora.
Durante l’attesa ebbe la capacità di non pensare a niente, o, per lo meno, di volare con la fantasia da un argomento all’altro senza approfondirne nessuno in particolare.
Quando i suoi apparvero all’orizzonte lasciò il sedile in cemento e li accompagnò verso casa. I tre camminarono in fila indiana e in perfetto silenzio.
Il padre portava la zappa sulle spalle ma aveva la schiena dritta.
La madre procedeva curva anche se non trasportava pesi, salvo quelli dell’esistenza.
Mentre avanzavano incrociarono Stefano che li salutò gioioso, come sua abitudine.
Annamaria notò in lui una luce nuova, però, lo vide entusiasta, ansioso di raggiungere una meta particolarmente gradita, o attesa. Ma non commentò la sua impressione, ritenendola di scarso interesse per i suoi accompagnatori.
Cenarono accompagnati dal telegiornale e scambiando qualche frase di circostanza.
Carmine e Assunta, per ignoranza e opportunismo, avevano sempre preferito parlare, ma non dialogare, con i propri figli.
Annamaria, terminato il pasto serale, aiutò a rassettare per poi salire al piano superiore. Andò nel bagno, si spogliò restando in reggiseno e mutandine. Prima di lavare i denti sciacquò il viso a lungo.
Una goccia d’acqua scivolò giù e si adagiò sulla mammella. Lo specchio catturò quell’immagine sensuale per un solo istante, il tempo che lei impiegò prima di cancellarla con l’asciugamani.
Dopo indossò il pigiama, largo come gli abiti appena tolti e andò a letto con l’intenzione di iniziare a sfogliare il libro che aveva ordinato su internet attratta dal titolo: Robin Hood.
Del tutto inconsapevole di aver comprato un romanzo per adolescenti si immerse nella lettura.
Dopo poche pagine avvertì un’emozione a lei sconosciuta. Assaporò il piacere di calarsi nella narrazione, fino a diventare parte di essa.
Il sonno la vinse dopo venti pagine. Le pagine del libro sfiorarono il suo viso, poi le si adagiarono sul petto.
Anche Stefano stava per addormentarsi cullato dalla quiete. Qualche ora prima la sua lunga attesa era stata, alla fine, premiata.
L’uomo dopo aver incrociato i vicini aveva preso la strada sterrata che collega Valle a un’altra frazione di Cervinara, percorribile solo a piedi, quindi poco trafficata, nonché priva di abitazioni.
A metà del percorso si era inoltrato nella Selva, come veniva definita dai vallesi, un campo pieno di alberi e terra incolta.
Al centro della distesa c’era un piccolo fabbricato in rovina, luogo frequentato, nei giorni senza pioggia, da coppie in cerca di intimità.
Stefano si era posizionato, come d’abitudine, a distanza di sicurezza dal casolare, protetto dagli arbusti e consapevole di avere alle spalle un parcheggio enorme, ma vuoto.
L’area, infatti, era destinata ai dipendenti della Mursie, la poligrafica. Poiché l’impresa chiudeva i cancelli alle cinque del pomeriggi non correva il rischio di essere visto.
Dopo un paio d’ore, e cinque sigarette, aveva avvistato due ragazzi entrare nel rudere. Binocolo alla mano aveva seguito il loro svago.
Un giovane che spingeva l’altro a terra facendolo distendere a pancia sotto, per poi abbassargli i pantaloni.
Il chiarore delle natiche. Un ventre appoggiarsi su di loro e il ragazzo che stava sopra coprire la bocca dell’altro con un mano prima di iniziare a sferrare una serie di colpi fortissimi.
Esaltanti al punto da fargli immaginare che fosse stato lui a causare quelle urla che la natura gli impediva di ascoltare.
Aveva raggiunto il piacere nel momento in cui anche nel casolare tutto si era fermato. Tranne gli spasmi che avevano attraversato l’addome del protagonista principale dell’amplesso.
Era stata la prima volta in cui si era intrufolato in un rapporto omosessuale, e l’aveva apprezzato, giacché l’appagamento germoglia quando è accompagnato dal vizio.
Chiuse gli occhi accompagnato dalla certezza che lo attendessero repliche, sapeva che i due sarebbero tornati, li aveva riconosciuti. Erano entrambi di Valle.
Si addormentò senza pronunciare il loro nome neanche a sé stesso.
Temeva che qualche folletto dei boschi gli avrebbe potuto leggere i pensieri e spifferare il segreto in giro, privandolo, di conseguenza, del divertimento.