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Capitolo 3 L'Avventura Argentina

Venimmo sistemati in un bellissimo posticino nei pressi del circuito, una specie di camping, con dei bungalow e una piscina comune. I ragazzi della squadra dividevano in gruppi di tre o due gli appartamenti, io, ovviamente, ne ebbi uno a parte, solo per me. Le strutture erano tutte di colori diversi, rosse, giallo senape, turchese e all'interno erano arredate modestamente, ma curate e pulite. C'era una bella vista per ognuna sulla piscina e la sera tutto sembrava così tranquillo e rilassante. L'unica cosa che odiai di quella permanenza fu il finestrino del bagno attaccato al soffione della doccia... un mix tra "presto avrò la bronchite" e "Se ci avreste messo una tendina, forse quelli in piscina non mi vedrebbero nuda".

Una delle cose carinissime di quella struttura era anche la possibilità di far provare il cross ai bambini, in una mini pista apposita, con gli istruttori, ovviamente. Beh, stando tanto vicini ad un autodromo avevano necessariamente dovuto creare attrattiva per chi si recava lì proprio per quel genere di eventi.

Quando arrivarono le moto e l'attrezzatura, noi meccanici dovemmo metterci subito a lavoro. Questa è un'altra parte magica del mio lavoro: sei tra i primi a mettere piede in sede di gara, quando c'è ancora poca folla. Ti gusti gli spalti vuoti, la pista silenziosa, l'arrivo scaglionato della folla, fai amicizia con la sicurezza e, gradualmente, ti accorgi di quanto il luogo si trasformi, via via, in un posto sempre più affollato e rumoroso, assordante. Chi non ama le gare non può capire questa magia, ne sono certa.

Alex era da subito apparso più sicuro in questo appuntamento, più agguerrito. Il primo dei suoi obiettivi era mettere le ruote davanti allo spagnolo che gli aveva soffiato la posizione due settimane prima. E per la miseria, il piccoletto ci riuscì, qualificandosi addirittura quinto per la partenza della domenica.

Al termine dei turni di qualifica, quando il paddock era quasi completamente sgombero, mi concessi una passeggiatina in solitaria. L'albergo era vicino, avrei potuto fare ritorno da sola, a piedi, un tragitto lunghetto, ma avevo proprio bisogno di silenzio e solitudine. Sono sempre stata così, capace di ricaricarmi camminando senza alcuna compagnia, stando sola con i miei pensieri.

Mi avvicinai al muretto del rettilineo iniziale della pista. Nei giorni precedenti avevo speso solo fugaci momenti a godere di quei colori, di quelli odori, ora che ciò che doveva essere fatto era compiuto e tutto dipendeva per lo più dal nostro pilota, volevo gustarmi quella striscia d'asfalto.

Probabilmente ero andata in trance, perdendo la cognizione del mio corpo come entità palpabile e occupante spazio, perché mi voltai per ritornare indietro, senza pensare che potesse esserci altro essere umano nei dintorni, sbagliandomi, ovviamente.

Fu in quel momento, quando decisi che era giunto il momento di abbandonare quel luogo ed andare a riposare, che qualcosa mi colpì tanto forte da scaraventarmi lunga sull'asfalto della pit-line. Mi rimisi in piedi quasi immediatamente, con l'aiuto di due mani dal colorito olivastro, accorse in mio aiuto. La persona a cui appartenevano continuava a ripetere: –Sorry! Sorry!- continuando a farlo fino a quando i nostri sguardi non si incrociarono, pochi centimetri l'uno dall'altro. Era Ernandez, mi aveva investita con il monopattino.

-oh... usted está...- bofonchiò, tentando di capire dove diavolo mi avesse vista. Poi l'illuminazione.

-L'italiana! Quella del Qatar! Ti chiamavi come l'amica di scooby-doo. Velma!-

-Dafne! - lo corressi, guardandolo di traverso e togliendo le sue mani dalle mie spalle, dove le aveva appoggiate per controllare che non mi fossi fatta male. -Come volevasi dimostrare, ci hai messo due minuti a dimenticarti come mi chiamo. -

-Ti sei fatta male? È tutto ok? -

-Sì, sto bene! - risposi, scrollandomi i vestiti.

In realtà uno dei miei gomiti sanguinava e bruciava come se stesse andando a fuoco. Lui se ne accorse, ovviamente. Il sangue aveva creato un rivolo rossastro lungo il mio braccio.

-Ti porto in infermeria, ti medicano! -

-Ho un kit di primo soccorso, farò da sola! Non c'è bisogno di... -

-Insisto! Por favor! - mi interruppe, sfoggiando il suo mitico sorriso accalappiante.

-Ok... - risposi, accorgendomi che il sangue dal gomito iniziava a scendermi copioso lungo il braccio.

-Sei nel team di ... -

-Alex Miles – risposi, iniziando a camminare tenendomi il braccio, mentre lui mi scortava trascinandosi dietro quel maledetto monopattino.

-Pubbliche relazioni? - chiese, nel tentativo di fare conversazione.

-Mi impietrì, osservandolo con fare di sfida, a mascella serrata.

-E' fantastico vedere come ogni uomo che incontri in quest'ambiente pensi che una donna sia brava solo a scattare foto o creare post! Sono un Meccanico. - pronunciai, scandendo la parola, come se stessi parlando ad un completo imbecille.

-Che? -

Fu una esclamazione felice quella, secondo voi? Certo che non lo fu! Persi le staffe. Perché doveva apparire tanto assurdo che una donna fosse impiegata come meccanico in un team, invece di occuparsi di Instagram e di quello che i piloti dovevano e potevano dire nelle interviste tv.

Ernandez comprese quanto quel monosillabo avesse creato una ragione ulteriore perché io lo detestassi, quindi tentò di riparare.

-Perdoname! Io credevo... -

-Senti Ernandez... -

-Chiamami Juan! -

-Ok, Ernandez! - ero una stronza, anzi lo sono, ne sono consapevole –Andiamo a fare medicare questo gomito. Tu ti assicurerai che è solo un graffio, smettendola di tentare di intavolare conversazioni superflue, ok? -

- Dios, estás muy amargado! - borbottò divertito.

-Guarda che capisco un po' di spagnolo. - dissi, tentando di trattenere un sorriso divertito. -Sono molto acida! Comunque non temere, non ti chiederò i danni per il gomito! - aggiunsi, aumentando l'andatura.

-Come avevo esplicitamente chiesto, Ernandez non fece altre domande, ma mi scortò fino alla medicheria, restando nell'ambulatorio con me, fino a quando, ferita pulita, disinfettata e medicata, venni lasciata andare.

-Visto, non era nulla! Ciao. - dissi, quasi prendendo a correre per seminarlo, una volta fuori.

-Posso fare altro? - chiese, mollando il monopattino e venendomi dietro.

-Hai fatto abbastanza, grazie. - risposi, sfoggiando un fasullo sorriso super tirato.

-Magari ceniamo insieme? Qué dices? Io resto leggero prima della gara, ma possiamo... -

-No! -

-Ma qualcosa devo fare per farmi perdonare! - insistette.

Era testardo. Non sapevo perché sprecasse tanto tempo.

-Sì. Stammi bene. Ciao. -

Ciò detto me ne andai, senza essere più inseguita, finalmente.

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