

Capitolo 2 Un nuovo inizio
Dal giorno successivo potetti godere di ciò che significasse realmente far parte di un team motociclistico. I preparativi erano frenetici, cronometrati, sfiancanti. Franco era maniacale, il che non poteva che essere giustificato. La precisione e la puntualità sono quanto di più importanti alla vigilia di una gara, specie alla prima di campionato. Alex, poveretto, era quello messo peggio. Era bravo, incredibilmente bravo per i suoi sedici anni, ma la pressione era anche forte, viste le aspettative di grandezza che la squadra aveva riposto su di lui. Tutto ciò lo rendeva emotivamente instabile, nervoso, irritabile, anche se non si dimostrò mai scortese con nessuno, a parte con quel poveretto di suo padre che, nel tentativo di dargli carica, tendeva ad aumentare la pressione che già tutto il team riponeva su di lui.
Il nostro pilota si piazzò tredicesimo il sabato di qualifica, ottavo alla gara della domenica. Uno spagnolo gli aveva soffiato la settima posizione sul rettilineo finale, a pochi metri dalla bandiera a scacchi, rubandogli la scia, il che non fece che aumentare la mia avversione nei confronti di Ernandez e dei suoi connazionali.
Terminata la nostra gara, messi in ordine moto e box, posticipammo l'analisi dei grafici al rientro in sede, così fummo liberi di goderci il gran premio della MotoGP, per fare una pausa, prima di riprendere a caricare le nostre cose nei camion. Certo che non avrei mai potuto rifiutare una proposta del genere.
Restai nella pit-line, insieme a Mattia, affacciandomi spesso dal muretto all'uscita dei box, quando le moto sfrecciavano sul rettilineo di partenza. Era una sensazione meravigliosa, il rumore, nonostante i tappi alle orecchie, lo spostamento d'aria provocato dal loro transito, il vederli filare veloci come proiettili vaganti ad oltre 300km/h.
Unica nota dolente della gara non poté che essere il suo vincitore: Ernandez. Ciò alimentò il mio malumore e le ragioni di Mattia nell'affermare che quello non era semplicemente un pilota, era un fenomeno, nonostante due dei suoi sorpassi chiave fossero consistiti in vistose sportellate contro gli avversari.
Dovetti sopportare i suoi discorsi per tutto il viaggio di rientro in Italia, almeno fino a quando decisi di godermi i due giorni liberi seguenti tornando da mio padre, invece che al mio tristissimo bilocale. Varcai la soglia di casa fiera di me stessa. Avevo fatto un ottimo lavoro, portato a casa un ottimo risultato, avevo acquistato maggiore considerazione tra i colleghi.
Quello che mi attendeva, fu il benvenuto più caloroso che potessi aspettarmi. Papà era strafelice di vedermi ed orgogliosissimo di me. In officina aveva appeso un ingrandimento del team per cui lavoravo, foto in cui anche io apparivo e a chiunque entrasse (da quanto appresi da Remo, braccio destro di mio padre) mostrava "la sua bambina" che lavorava nelle corse.
Trascorsi due giorni davvero spensierati, durante i quali papà dimostrò in ogni maniera quanto fosse orgoglioso di me e della mia carriera. La cosa mi rendeva enormemente felice. Lui non aveva mai dimenticato il casino che avevo combinato con la Kawasaki a quindici anni, né mai lo avrebbe fatto, ma con quel lavoro, avevo chiuso un capito, dimostrandogli che non aveva più nulla da temere.
Papà era un omaccione panciuto, con le mani callose e perennemente annerite dal grasso dei motori, portava ancora la corvina capigliatura ricciuta e i folti baffoni anni '80. Credo che semmai avesse tagliato quei due enormi spazzolini da denti, non l'avrei neanche riconosciuto. Nonostante l'aspetto burbero e poco curato, poco di moda, si era occupato di me da solo, con infinito amore, senza mai portarsi un'altra donna in casa, dedicandosi solo ed esclusivamente a me, senza lasciarmi neanche per un attimo, quando a quindici anni vivemmo il periodo più buio delle nostre vite.
Prima che decidessi di partire per il Veneto, qualche anno prima, risultando idonea per uno stage con l'azienda motociclistica con cui ora lavoravo, mi aveva rivolto le solite raccomandazioni, lasciandomi da sola in aeroporto, dileguandosi prima di mostrarmi il volto traboccante di lacrime per la mia partenza.
Dopo quei due giorni, rientrai nel mio misero, angusto e impersonale bilocale. Vivevo lì da oramai quattro anni, ma non avevo mai comprato una tendina o una tovaglia che facesse di quel luogo casa mia a tutti gli effetti. Mi limitavo ad usare quanto il padrone di casa mi aveva lasciato a disposizione. Non dovetti starci per molto, comunque. Subito dopo la riunione di mercoledì, lo staff operativo fu informato che sarebbe ripartito per la tappa successiva quello stesso week-end.
Non ve lo sto qui a dire, le valige non le avevo neanche disfatte. Mi limitai a prepararmi per ripartire. Per fortuna non ero mai stata una in grado di curare me stessa come tutte le donne di questo mondo, figuriamoci se mi fosse mai balenata l'idea di prendere un animale da compagnia! Quindi lasciai il mio bilocale senza troppi pensieri, rimettendomi in viaggio. Prossima tappa: Termas de Rio Hondo, Argentina.
Ebbene sì, non ero mai stata oltre oceano, non avevo mai viaggiato in aereo per un tempo tanto lungo, non avrei mai potuto immaginare quanto tutto questo avrebbe potuto piacermi.

