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2/125. L'Arco di Tito

Inizialmente, quando la prima coppia aveva tirato fuori quell’oscuro oggetto rettangolare, il nostro legionario aveva pensato ad uno strumento magico, ma ricordando le parole di Marte, scacciò subito quel pensiero semplicistico e vedendo che la donna aveva lineamenti orientali, concluse che in quella parte remota della terra avessero invenzioni straordinarie che ai romani ancora erano sconosciute.

Dovette però ricredersi poco dopo, quando una coppia dai lineamenti tipici africani e poi un altro gruppo di persone dalla carnagione chiarissima ed i capelli biondi, simili a quelle popolazioni barbare a nord dell’impero romano o alcuni celti, facevano uso dello stesso strumento.

Due cose gli furono chiare: la prima era che il posto in cui si trovava era pieno di persone provenienti da ogni parte del mondo, quindi presumibilmente si trattava di un porto o di un mercato; la seconda, che quell’oggetto era qualcosa di comune e alla portata di tutti, visto che ognuno ne sfoggiava uno e lo utilizzava in modo disinvolto, chi in un modo chi in un altro.

Anche se il nostro legionario aveva deciso di rimandare le sue riflessioni sulle tante meraviglie con cui veniva in contatto ad un momento in cui sarebbe stato meno vulnerabile e in un contesto di maggiore tranquillità, non poté fare a meno di spendere alcuni istanti per acquistare consapevolezza di sé.

Aveva potuto rivedere sé stesso impresso in decine di quei ritratti istantanei, mezzo busto, tutto intero, alcune ragazze lo avevano ritratto anche in primo piano, quindi ormai aveva ben chiara e scolpita nella sua mente la sua statura, i lineamenti del suo viso e i dettagli della sua corporatura.

Non che non avesse mai visto la sua immagine riflessa in uno specchio, ma la natura del metallo riflettente non gli permetteva di apprezzare i veri colori della sua carnagione, dei suoi occhi e dei suoi capelli.

Per questo rimase stupito dal sé stesso che raffiguravano quei ritratti.

Nei suoi lineamenti ritrovava la corporatura ed il colore della carnagione del padre, tuttavia i suoi capelli ed i suoi occhi erano inequivocabilmente materni.

Il nostro soldato era originario di una delle province romane della Siria. Tuttavia la sua famiglia rappresentava un miscuglio ben amalgamato di civiltà e origini diverse. Suo nonno etiope di nascita, si arruolò nelle coorti ausiliari dell’esercito romano. Dopo venticinque anni di fedele servizio non solo ottenne il congedo con onore ma fu anche premiato divenendo a tutti gli effetti cittadino romano.

Desideroso di trascorrere il resto della sua vita in modo pacifico e finalmente libero di coltivare anche il desiderio di mettere su famiglia, si trasferì nella provincia romana della Siria. Lì conobbe un rispettabile mercante, la cui figlia si invaghì di lui al punto tale che i genitori dovettero acconsentire al loro matrimonio.

Dalla loro unione nacque suo padre Fayez, alto, longilineo e scuro di carnagione, un fascio di nervi e muscoli affusolati, agile e veloce come una gazzella. Abile nel commercio, ereditò a pieno titolo l’attività di famiglia della madre. Questo lo portò a viaggiare per tutto il mediterraneo e fu proprio in uno di questi viaggi che incontrò Lavinia.

Figlia anch’essa di commercianti, con i suoi grandi occhi verdi e i suoi morbidi e lisci capelli castani e la carnagione chiara, attirò le attenzioni di Fayez durante uno dei suoi viaggi.

Lavinia, di origine italica, per volontà dei genitori, era stata cresciuta ed istruita ad Atene, abile ed intelligente, piena di cultura e con una mente pronta ad accogliere tutte le esperienze che il vasto impero romano avrebbe potuto offrirle, rimase irrimediabilmente affascinata dall’aspetto di Fayez e dalle avventure fantastiche che le raccontava di aver vissuto durante i suoi viaggi commerciali.

Le risorse economiche di quest’ultimo, più che l’aspetto ed il carattere del ragazzo, conquistarono il cuore dei genitori di Lavinia, che acconsentirono al loro matrimonio.

Queste furono le circostanze che diedero i natali a questo soldato romano originario della Siria.

Alto, di carnagione olivastra, aveva i capelli d’ebano ondulati; non era il classico soldato eccessivamente muscoloso, tuttavia il suo fisico asciutto emanava un'aura di energia che gli conferiva un aspetto potente a dispetto della sua effettiva massa muscolare. I lineamenti, ammorbiditi dal gene femminile della sua famiglia, erano regolari e comuni, ma ciò che gli dava fascino era il contrasto che produceva il generale colore bruno della pelle con i suoi occhi verdi, intensi e profondi. Il suo era uno sguardo giovane, poco più che trentenne, intelligente e brillante come si conviene ad un ragazzo che fin dalla tenera età aveva viaggiato con il padre e la madre, studiando filosofie e culture diverse e scoprendo usanze sempre nuove.

Tuttavia i suoi occhi penetranti suscitavano anche un senso di rispetto ed un affascinante magnetismo, probabilmente dovuti al fatto che una volta intrapresa la carriera militare, tutte quelle terribili esperienze avute in battaglia, la sofferenza della perdita di alcuni amici che si erano spenti tra le sue braccia non solo a causa del colpo mortale di un nemico, ma anche per gli stenti o la malattia, avevano fatto di lui un uomo di spessore fin dalla giovane età.

Effettuata un’attenta analisi di sé stesso grazie a quel portentoso oggetto, l’opinione che si formò fu sostanzialmente positiva, non solo per il confronto che faceva con i diversi stranieri, molti dei quali decisamente fuori forma, ma anche per la reazione che suscitava nelle ragazze quando le guardava o si accostavano a lui per un ritratto. Notava il rossore dipingersi sulle loro guance e un’improvvisa timidezza impediva loro di sostenere il suo sguardo in modo deciso, tutti segni che evidentemente lo dovevano trovare bello o quanto meno attraente.

Dopo essersi concesso questa piccola parentesi di auto esaltazione, tornò a concentrarsi sul presente. Doveva capire dove si trovava, in quale luogo e città e in che periodo, insomma i soliti dove e quando, perché per quanto riguardava il come, Marte aveva già provveduto a soddisfare la sua curiosità spiegandogli che il suo spostamento sarebbe avvenuto attraverso un viaggio temporale, le cui modalità ancora lui non avrebbe potuto comprendere.

Per la prima volta da quando si era svegliato si allontanò dall'arco che fino a quel momento era stato per lui un riparo.

Il posto gli sembrava sicuro, caotico, ma per il momento privo di pericoli.

Iniziò a guardarsi intorno, molto di quello che scorgeva gli sembrava familiare eppure non poteva ancora farsi un’idea di dove si trovasse. Intorno a sé era circondato da colonne e muri diroccati resti di templi, case e botteghe una volta piene di vita ma che ora risultavano ruderi spenti, distrutti probabilmente da un terribile evento, forse un terremoto? Poi guardò meglio e scorse strutture completamente diverse molto più recenti, decisamente in contrasto con quelle rovine ed improvvisamente, come un lampo rischiara un cielo cupo e tenebroso carico di pioggia, così un pensiero illuminò il buio della sua mente ancora ignara del mondo che lo circondava.

C’era un evento che poteva rivelarsi più devastante di ogni altro fenomeno naturale, in grado di demolire edifici, sgretolare imperi, abbattere ideologie, annientare i ricordi, il nemico di tutti e di tutto: il tempo.

Questo silenzioso ma inarrestabile conquistatore, a cui prima o poi tutti piegheranno le loro ginocchia vinti dalla sua avanzata inesorabile, probabilmente, era stato lui a causare quelle rovine.

Con questa nuova idea in mente iniziò a cercare indizi che lo aiutassero a comprendere quale imperatore stesse governando in quel momento l’impero, ammesso che ancora ci fosse stato un impero da governare.

Normalmente avrebbe chiesto ai passanti, ma nessuno di loro avrebbe compreso la sua lingua ed esporsi così, rivelando la sua identità di straniero, non gli sembrò una buona idea.

Certo, non era così stupido da credere di poter passare inosservato, ma per qualche motivo la sua armatura, pur essendo l’unico ad indossarla, attirava l’attenzione delle persone in modo favorevole, si sentiva come parte del paesaggio, vedeva che la gente che interagiva con lui lo considerava come una testimonianza vivente di un tempo lontano.

Questa consapevolezza l’aveva maturata osservando i comportamenti dalle persone che lo circondavano, si facevano ritrarre con il soldato e poi passavano ai ruderi di un tempio poco più avanti, con lo stesso entusiasmo e con la stessa gioia sia per l’uno che per l’altro, segno inequivocabile che lo consideravano alla stessa stregua di quei monumenti che stavano visitando. Ma se avesse parlato e se avessero scoperto che nulla di quello che diceva o che loro rispondevano sarebbe stato comprensibile, come ne sarebbe uscito? Cosa avrebbe inventato? Come avrebbero reagito?

No, non poteva rischiare un azzardo del genere, era ancora troppo presto, aveva bisogno di sfruttare quella situazione di tranquillità e raccogliere più informazioni possibili, senza interagire con gli altri.

Analizzando ciò che lo circondava, si convinse, oltre ogni ragionevole dubbio, di trovarsi in una città romana, l’architettura, anche se in rovina, non lasciava spazio a dubbi, ma poteva trattarsi proprio di Roma?

Vedeva davanti a sé un arco in lontananza, ma da quella distanza non riusciva a leggerne l’iscrizione, poi tutto d’un tratto alzò gli occhi al cielo, come colpito da un’improvvisa illuminazione: anche la struttura sotto cui si era riparato era un arco, studiandolo avrebbe potuto scoprire qualcosa di utile?

La sua intuizione portò frutto e gli diede una serie di informazioni fondamentali.

L’arco sotto cui si trovava non era altro che il monumento eretto per celebrare la vittoria sul popolo giudaico del generale Tito, capo dell’esercito di cui lui fece parte.

Lui quell’assedio lo ricordava bene, fu l’ultimo a cui partecipò, quello in cui compì il sacrificio estremo e quello per il quale gli dei decisero di premiarlo concedendogli una seconda possibilità e una nuova missione.

Ritrovare in quel luogo un ricordo del suo tempo, un indizio del mondo in cui aveva vissuto fino al giorno prima, fino a poche ore prima, gli diede una gioia indescrivibile ed una nuova energia per continuare a cercare le risposte alle sue due fondamentali domande: dove e quando.

Una cosa però l’aveva compresa, nel luogo in cui si trovava, il maestoso impero romano veniva rispettato, Tito era stato acclamato vincitore e Vespasiano era divenuto imperatore. Quei fatti erano sotto gli occhi di tutte quelle persone che evidentemente venivano ancora, nonostante gli anni trascorsi, ad onorarne le gesta.

Ma quanti anni erano trascorsi dal giorno di quella vittoria rispetto al tempo attuale e quale imperatore stava governando? Non riuscire ad ottenere in modo sicuro quell’informazione iniziò ad agitarlo, quando, sorprendentemente, un suono a lui famigliare gli fece sobbalzare il cuore in petto.

Improvvisamente la speranza lo risollevò dallo sconforto e una preghiera di ringraziamento venne innalzata al divino Marte che evidentemente stava guidando la sua ricerca.

Un uomo, infatti, circondato da un gruppo di giovani, si esprimeva nella sua lingua, quell’uomo parlava latino, quell’uomo poteva comprenderlo, quell’uomo poteva dare risposta alle sue domande.

La gioia era incontenibile, ma fece uno sforzo per dominarla così da riuscire ad avvicinarsi senza metterlo in soggezione, lui era pur sempre un soldato romano ed il suo interlocutore un semplice uomo del popolo.

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