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Capitolo 6 - Adrian

«Katy!» La chiamo con voce ferma, senza distogliere lo sguardo dalle carte che ho davanti.

Lei solleva la testa dal monitor del pc, i suoi occhi verdi si accendono di una luce che conosco bene. È il tipo di sguardo che promette molto più di una semplice risposta formale.

Katy è una bella ragazza, non si può negare: capelli biondi che ricadono perfetti sulle spalle, labbra carnose che sembrano sempre pronte. Ma oltre all’aspetto, c'è di più.

È anche sorprendentemente brava con la bocca, in più di un modo, e per un po' abbiamo ceduto alla tentazione di sfruttare quegli incontri segreti, rapidi, elettrici, nei momenti in cui l'ufficio diventava solo uno sfondo per i nostri corpi affamati.

Tuttavia, tutto ha un limite. Quando ho iniziato a notare il suo sguardo farsi sempre più adorante, come se ogni parola che usciva dalla mia bocca fosse una promessa non detta, ho capito che era il momento di mettere un freno.

Katy stava iniziando a farsi idee, a leggere in ogni nostro incontro qualcosa di più profondo, di più "serio", e questo non fa per me. Io vivo di avventure, di emozioni fugaci. Non c’è spazio per sentimenti o relazioni fisse.

Una donna che si concede così facilmente, che regala favori ai colleghi come fossero caramelle non può essere qualcosa di più che un passatempo.

Non mi interessa domare il cuore di nessuna, tanto meno quello di una donna che cerca emozioni dove io vedo solo istinto. Il sesso è una cosa, l’amore un’altra. E io non confondo mai le due cose.

«Adrian.»

Pronuncia il mio nome come una gatta in calore e mi tocca scacciare via l’immagine che la ritrae mentre è seduta sulle ginocchia e in mezzo alle mie gambe.

«Mi allontano per un paio d’ore. Puoi inventare una balla se Smith chiede di me?»

Le faccio un occhiolino, segno che saprò ben ricompensarla e lei sembra eccitarsi all’istante.

«Certo! Stai tranquillo.»

Non mi preoccupo nemmeno di salutarla. Afferro le mie cose e esco dall'ufficio. Theresa è lì, immobile come una statua, con il viso rigato di lacrime e il colorito pallido. Mi guarda con occhi gonfi, quasi disperata, come se il mondo le stesse crollando addosso.

Dentro di me, scatta un istinto brutale. Odio le donne che piangono di continuo, che si attaccano alle lacrime come fosse l’unico modo per risolvere i problemi. Non sopporto quelle ragazzine che prima ti stuzzicano, ti provocano, e poi si ritirano, piene di pentimenti e rimorsi. Sono quelle che ti trascinano nel loro caos, ti seducono per poi buttarti addosso il loro senso di colpa, come se fossi tu il problema.

Le odio. Odio quelle che finiscono per metterti nei casini, che giocano con la tua testa e poi ti tengono stretto per le palle, facendoti credere che sei tu a dover pagare per i loro errori, per i loro sbagli.

«Dove stiamo andando?»

«Indossa questo!»

Non le rispondo e le passo il casco. Lo indossa ma al contrario. Sospiro e faccio di tutto per ingoiare una bestemmia. Avrei preferito fottere un’altra questa notte, anziché ritrovarmi ora con Theresa che del mondo e della vita non conosce un bel niente.

Le sistemo il casco e vorrei non provare niente mentre allacciandoglielo, finisco per toccarle il viso morbido e bagnato di lacrime. Vorrei asciugarle anche il pianto ma presto lo farà il vento al posto mio ed è meglio così, è meglio per me e per tutti quanti.

«Guida piano!»

«E tu reggiti forte!»

Per un attimo sorrido, ruoto la manopola del gas e Theresa mi stringe forte le braccia sul petto quando sente il boato della moto, le sue gambe a stretto contatto con le mie, proprio come questa notte.

Scuoto la testa e accelero. Dopo quindici minuti, cinque semafori rossi e lo slalom tra le macchine nel traffico della città, giungiamo al Seattle Grace Hospital, l’aiuto a scendere e le strappo il casco dalle mani per riporlo al proprio posto.

«Perché siamo in ospedale?»

«Cazzo Theresa, tutto devo dirti?» Mi guarda e arrossisce. «Se ti sono venuto dentro e tu non prendi precauzione, hai bisogno della pillola del giorno dopo.»

«Che cosa? Io… no.»

«Tu sì! Non ho nessuna intenzione di ritrovarmi un figlio tra nove mesi per colpa di una scopata da ubriaco, okay?»

Spalanca gli occhi, non dice nulla ma so per certo di averla ferita. Ma questa è la verità! È la dannata verità!

Eravamo ubriachi entrambi e abbiamo fatto sesso e lei non prende la pillola perché William è un coglione e scommetto che fa risparmio anche sul sesso con lei per non consumare troppi soldi e acquistare preservativi.

«Non fare quella faccia! Non è niente e tu non sei di certo la prima.»

«Ma per me è la prima volta…»

«Allora impara la lezione!»

Mi segue all’interno senza fare storie e sembra un cane bastonato. Giungiamo davanti al pronto soccorso e un’infermiera ci accoglie con il sorriso mentre chiede chi dei due ha bisogno di assistenza.

Le indico Theresa e la donna sembra prenderla subito a cuore, le poggia una mano sulla spalla e le chiede se è in possesso dell’assistenza medico-sanitaria. Theresa biascica una risposta affermativa e l’infermiera le dice di accomodarsi su una sedia per controllare subito la pressione sanguigna.

Mi allontano, faccio qualche passo indietro anche se vorrei scappare a gambe levate da questo posto.

«Se vuole può stare insieme alla sua ragazza.»

Sto per rispondere all’infermiera e dirle che non si tratta affatto della mia ragazza ma Theresa si volta e i suoi occhi mi supplicano, mi entrano dentro, nel petto e fin dentro al cuore.

Ha paura, è sola e io solo l’unica persona che adesso può restarle accanto e magari stringerle la mano, prometterle che andrà tutto bene.

«No, grazie. Preferisco attendere fuori.»

No, è meglio evitare. Sono affari di donne e Theresa deve imparare a sbrigarsela da sola. Sono convinto che da tutta questa storia ne uscirà più forte.

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