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Capitolo 7 - Theresa

«Il rapporto sessuale è stato consenziente?»

«Sì.»

La parola mi esce dalle labbra con un lieve tremito. Esito solo un istante, ma so che è la verità.

Ero ubriaca, sì, ma perfettamente consapevole di quello che stavo facendo. Solo che, in quel momento, davo per scontato che fosse il mio fidanzato. Un errore, certo, ma non posso negare di aver scelto di donarmi a quell’uomo.

«Come mai non prende anticoncezionali?»

Sento il cuore accelerare, la gola che si stringe.

«Abbiamo sempre usato...»

Le parole restano sospese, mentre nella mia mente si affollano mille pensieri. Il senso di vergogna mi invade come un'onda. Parlare di queste cose mi fa sentire esposta, vulnerabile.

Ho sempre evitato di affrontare apertamente certi argomenti. Solo con Martha, la mia migliore amica, ho osato condividere qualche confidenza, ma mai in maniera così cruda, così sfacciata.

E adesso, davanti a questa domanda diretta, mi sembra di morire un po' dentro, come se un pezzo di me stesse venendo a galla, nudo e fragile, sotto lo sguardo giudicante del mondo.

«E come mai questa volta non avete usato un profilattico?»

Sembra un interrogatorio anche se l’infermiera continua a dimostrarsi gentile e ha un aspetto rassicurante, ma non posso dirle la verità, non voglio dirle che ero ubriaca e che il ragazzo con cui lo stavo facendo non era quello di sempre.

«Va bene, ho capito. Puoi spogliarti e accomodarti sul lettino.»

«Come?»

L’infermiera solleva lo sguardo su di me e le cascano un po’ gli occhiali sul naso.

«Dobbiamo prima visitarti, è la prassi.» Mi spiega e io titubante mi sollevo dalla sedia per fare come ha detto.

«Sei molto tesa, stai tranquilla e vedrai che andrà tutto bene.»

«Okay!»

«Se vuoi, posso far entrare il tuo ragazzo. Anzi, è giusto che entri. Deve prendersi anche lui le sue responsabilità.»

«No, no. La prego.»

La mia voce è solo un sussurro disperato, ma lei non mi ascolta. La supplica si spegne sulle mie labbra come un rantolo soffocato. Poco dopo, la porta si apre e dietro di lei vedo Adrian.

Non William, ma Adrian.

Nei suoi occhi vedo ardere una rabbia fredda, trattenuta a fatica. Non mi guarda, fa di tutto per evitare il mio sguardo.

«Può accomodarsi qui!» dice la dottoressa, indicandogli la sedia accanto. Poi si rivolge a me con un tono quasi materno, che mi mette ancora più a disagio.

«Cara, tu hai fatto?»

Vorrei gridarle che no, non ho fatto niente, che questa situazione mi sta schiacciando, ma rimango muta, annuendo debolmente.

Mi nascondo dietro il paravento e con mani tremanti sfilo le mutandine. Ogni movimento mi sembra lento, come se il tempo si fosse allungato, rendendo tutto più doloroso.

Il freddo della stanza mi penetra nella pelle mentre prendo posto sulla sedia ginecologica. Vorrei chiudere le gambe, nascondermi, non permettere a nessuno di vedermi così, vulnerabile, esposta.

Da qui, con il corpo rigido e il cuore in gola, vedo Adrian.

È seduto sulla sedia di fronte alla scrivania, proprio dove mi trovavo io poco prima. Ha una gamba accavallata sull’altra e le braccia incrociate sul petto.

La sua postura è tesa, troppo rigida. Non guarda né me né la dottoressa, fissa un punto nel vuoto, come se stesse cercando di tenere insieme tutti i pezzi di una situazione che sta rapidamente sfuggendo di mano a entrambi.

E io, in quella posizione umiliante, sento il peso di ogni sua emozione come fosse il mio. Entra un dottore, non si prende neppure la briga di presentarsi, ascolta solo le informazioni dell’infermiera e con sguardo annoiato procede a visitarmi.

Non lo guardo, non guardo cosa sta per farmi ma sussulto quando sento qualcosa che entra dentro di me. Deduco che sia il divaricatore ma poco dopo sono di nuovo libera.

«Sì, in effetti c’è ancora qualche residuo all’interno.»

La sua voce suona secca, quasi giudicante.

«Non capisco perché è venuta qui? Non lo sa che la pillola del giorno dopo è acquistabile senza ricetta medica? È maggiorenne?»

Mi sento improvvisamente sciocca, come se ogni parola mi stesse umiliando. Vorrei schiaffeggiare Adrian per avermi trascinata qui, in questo posto freddo e impersonale.

«Sì, sono maggiorenne, ma...»

«Non lo sapeva, ho capito.»

Non mi lascia nemmeno finire. Inizia a dare istruzioni all'infermiera, il suo tono è freddo e distaccato. Dopo aver salutato appena con un cenno della testa, esce dalla stanza, lasciandomi ancora più confusa e svuotata.

Mi rivesto in fretta, sperando solo di poter uscire da lì il prima possibile. Ma l'infermiera mi porge una compressa e un bicchiere d’acqua. Le mani mi tremano mentre la prendo. Poi la seguo oltre il paravento, dove Adrian è ancora seduto.

Si volta, mi guarda, ma è come se non mi vedesse davvero, come se fossi invisibile ai suoi occhi, parte di una realtà che vuole ignorare.

«Bene! L’assunzione della pillola non causa generalmente effetti collaterali, ma potrebbero insorgere nausea, debolezza e mal di testa. Se dovessi vomitare entro le prossime due ore, dovrai prenderne un’altra.»

Mi allunga un altro blister, la compressa sigillata ancora fresca tra le sue dita.

«È tutto chiaro?»

Annuisco in silenzio, incapace di parlare. La donna mi sorride con un leggero cenno, ma il suo viso si irrigidisce quando sposta lo sguardo su Adrian. I suoi occhi si fanno freddi, severi.

«Vi ricordo comunque che è sempre buona norma usare un metodo contraccettivo adeguato per evitare episodi spiacevoli come questo, o anche solo per tutelarsi dalle malattie sessualmente trasmissibili. Questa pillola va presa solo in caso di emergenza, e non deve essere vista come un sostituto della contraccezione regolare. Mi sono intesa?»

Il suo tono è tagliente, quasi ammonitore, e per un attimo mi sento piccola e vulnerabile, come se l'intera stanza pesasse su di me.

La ringrazio con un filo di voce, mentre l’infermiera mi sorride ancora una volta e mi porge l’impegnativa del medico, spiegandomi che potrei mostrarla in farmacia se volessi prendere la pillola in futuro per tutelarmi meglio. La sua gentilezza mi fa sentire un po’ meno sola, ma il peso della situazione resta insopportabile. S

ento una stretta al petto, come se tutta la vergogna e il senso di colpa si fossero aggrappati a me, soffocando ogni pensiero lucido.

Esco dalla stanza con passi pesanti, il cuore che martella nelle orecchie.

Adrian è già fuori, davanti alla porta, con il casco in mano. Non mi guarda neanche. Indossa il casco senza dire una parola.

Lo fisso, aspettando che mi passi il mio, sperando in un gesto di premura, qualsiasi cosa che mi faccia sentire meno invisibile in questo disastro.

Ma non accade.

«Devo correre al lavoro. Di fronte c’è la fermata del bus che ti riporterà a casa.»

La sua voce è fredda, priva di emozione.

Lo guardo incredula, il vuoto dentro di me si allarga. Non riesco nemmeno a parlare.

Vorrei urlare, vorrei scuoterlo, chiedergli come fa a essere così indifferente. Ma le parole non escono, restano soffocate nella mia gola, così come tutte le emozioni che mi stanno divorando.

Mi sento svuotata, come se non esistessi davvero per lui, come se non fossi mai stata altro che un incidente di percorso, una macchia da cancellare.

Resto lì, immobile, mentre lo vedo allontanarsi, sentendo il gelo scivolarmi sotto la pelle.

Mi guardo intorno, il mondo continua a girare, e io mi sento come un fantasma, persa in un vuoto in cui nessuno sembra vedermi davvero.

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