Capitolo 3
Cadeva il giorno del 31 Ottobre, e la grande festa riguardava la vigilia di Halloween, tema molto caro a tutti gli studenti dell’Università, invece io lo detestavo.
La notte tra il 30 e il 31 ottobre dell’anno 1993 (anno in cui io ero nata) cadeva l’anniversario della morte del mio attore preferito, River Phoenix, deceduto davanti al Viper Room, un locale da ballo di proprietà di Johnny Deep, per overdose di droga a soli ventitré anni.
Ogni volta che ci pensavo mi assaliva una malinconia assurda, e un concetto ossessionante s’impadroniva della mia mente, ossia che la morte avrebbe potuto raggiungerti in qualsiasi momento, a qualsiasi età e senza preavviso, e il giorno dopo non avresti più visto sorgere il sole.
Questo pensiero mi turbava a tal punto che, ogni volta che qualche conoscente moriva, mi si stampava in testa come un marchio indelebile.
Talvolta non mi capacitavo degli oscuri pensieri che attraversavano la mia mente, ma poi una ragione logica si faceva spazio dentro di me.
La morte avrebbe potuto raggiungermi all’improvviso, senza che io potessi far nulla, dato che era sufficiente ferirmi abbastanza gravemente da temere che mi prendesse all’istante, senza darmi il tempo di un respiro.
E questa mia consapevolezza si traduceva in mancanza di energie, di voglia di vita, di speranza per il futuro, con la ovvia conseguenza di essere sicura di non aver mai veramente vissuto.
Jason si alzò dal tavolo dicendomi che aveva un impegno improrogabile, ci saremmo visti direttamente da Mary per la prova costumi, si avvicinò e mi baciò frettolosamente “A dopo” disse, pochi istanti e fu fuori dalla mia visuale.
Terminai il mio pranzo senza tanto entusiasmo, poi sentii il cellulare gemere nello zaino.
Era mio padre.
“Ciao papà che succede?” chiesi allarmata, “Non torno per cena tesoro, sarò a casa per la mezza” disse.
“Capito” replicai, “Non fare tardi a quella specie di festa” aggiunse in tono autoritario, sbuffai rassegnata, ma lo sapeva o non che avevo vent’anni?
“Okay stai tranquillo, ci vediamo papà” conclusi, interrompendo la comunicazione.
Il lavoro di mio padre era un enigma per me, ma una cosa la sapevo, senza che mi spiegasse nulla o mi confidasse i dettagli della sua professione, e cioè avevo capito che tutto ruotava attorno alla problematica del DNA.
Sapevo che gestiva un laboratorio, perché spesso ero stata costretta ad effettuare una serie infinita di esami, forse perché in cuor suo avrebbe desiderato risolvere la questione della rarità del mio sangue, magari creando in laboratorio qualcosa che avrebbe potuto aiutarmi in caso di bisogno, ma la sua ossessione mi aveva portata ad un livello di apatia tale, che talvolta rinunciavo a qualsiasi iniziativa ancora prima di pianificarla.
Allora mi sfogavo leggendo libri fino a sfinirmi, ed era lì che scattava la malinconia più assurda che avessi mai provato, spesso m’immedesimavo così tanto nei personaggi da rivivere le loro emozioni, con la ovvia conseguenza di perdere la cognizione della realtà.
Una realtà che non mi piaceva e da cui desideravo fuggire, perché privata di tutto ciò che avrebbe potuto farmi felice.
Poi, un giorno era comparso Jason e, senza nessun preavviso, era scattato qualcosa in me. Mi ero imposta che avrei dovuto avere la mia prima esperienza amorosa, perché a vent’anni, non si poteva vantare il primato di essere l’unica ragazza dell’Università che non aveva mai avuto una relazione, così avevo accettato la sua proposta.
Nei primi giorni, che di solito sono i più belli, il mio cuore, però, non era partito a razzo, non avevo sentito quel galoppo impazzito di cui avevo letto sui libri, ma quelli erano sogni di carta, la realtà invece era tutta un’altra storia, e lo stavo scoprendo giorno dopo giorno.
Avrei dovuto smettere di sognare come una ragazzina in preda alle prime cotte e, cosa più importante, mi sarei imposta di staccarmi da tutti quei personaggi che frullavano nella mia testa come mine vaganti.
Non avrei potuto sostenere un paragone con loro, avrei perduto sempre.
A quindici anni passai un anno stralunata. A quel tempo la pioggia e le nuvole erano entrate nella mia vita come fossero state indispensabili per alimentare la mia fantasia, i miei sogni.
Uscivo con l’impermeabile e l’ombrello e percorrevo la strada a piedi osservando i grandi alberi che costeggiavano la strada, poi, quasi sognassi ad occhi aperti, immaginavo che, dietro a quei tronchi inzuppati di umidità e ricoperti di muschio, si materializzasse il vampiro Edward Cullen, pronto a mordermi il collo e cessare la mia lenta e inesorabile agonia di vita.
Era ovvio che ero caduta vittima della saga, i cui libri avevo divorato in pochi giorni, ma perlomeno mi aveva aiutato a sognare, e a sperare che la realtà, a volte davvero insopportabile, si sarebbe potuta trasformare in un’avventura, se si avesse incontrato qualche elemento soprannaturale sulla propria strada.
Era la mia fuga, la mia voglia di provare emozioni intense, due cose per le quali avrei fatto carte false per farle avverare.
Guardai l’orologio, era ora di rientrare poi sarei andata da Mary sperando che non avesse scelto due costumi osceni.