5/155. Amicizia
- Attenta! Sali con un po’ di delicatezza. Finirai per strappare il vestito prima ancora di arrivare all’altare! – mi riproverò Violet.
- Ci sto provando, ma è davvero ingombrante e non vedo dove metto i piedi! – mi lamentai io.
- Devi semplicemente salire in auto, possibile che anche un’azione così semplice diventa un dramma? – ribatté lei.
- Non vedo nulla e mi finisce sempre il vestito sotto i piedi, in più non fai altro che rimproverarmi e questo mi mette ansia. Risultato ho paura anche a respirare dentro questo vestito! – contestai io a mia volta.
- Se avessi partecipato a qualche ballo studentesco…non dico tutti ma almeno a qualcuno…non saresti così impacciata nell’indossare qualcosa di diverso da un pantalone e di più lungo di un tailleur! – incalzò nuovamente la mia migliore amica che si stava trasformando nel grande inquisitore.
- Va bene…va bene… mi arrendo! Hai ragione tu! Ora puoi darmi tregua? Già mi sento come un elefante in un negozio di porcellane, senza bisogno che peggiori la situazione con i tuoi continui rimproveri! – mi lagnai.
- Ok! Scusami! Hai ragione! È che sono nervosa! Non ho chiuso occhio questa notte…insomma…stai per sposarti…devo essere felice per te…e lo sono…ma sono anche preoccupata. Mi chiedo: andrà tutto bene? Oppure, saprà farla felice? Ci frequenteremo ancora oppure adesso che entrerà a far parte dell’alta società, smetteremo di essere una famiglia? – Violet, come un fiume in piena iniziò a riversarmi addosso tutte le sue paure.
Finalmente ero riuscita ad entrare in auto, l’afferrai per la mano e la tirai dentro costringendola ad abbracciarmi.
- Prego, vada pure. – dissi all’autista mentre liberavo la mia amica da un lungo e confortante abbraccio.
Quando, da ragazza riuscii a liberarmi dalle grinfie di mio padre, nessuno dei miei nonni si sentì pronto ad accogliermi, così venni affidata alla stessa famiglia che aveva cresciuto Violet da quando aveva cinque anni. Eravamo coetanee e gli assistenti sociali pensarono che la vicinanza reciproca potesse aiutarci a superare i nostri traumi e i difficili anni dell’adolescenza.
E fu così.
Violet ed io iniziammo a condividere ogni cosa, dalla camera da letto, ai vestiti, alle faccende domestiche.
Sì perché gli Spencer, la nostra famiglia affidataria, non avevano molti mezzi, ma sicuramente un grande cuore, altrimenti non avrebbero certo preso in affidamento ragazze problematiche come noi.
Entrambi i nostri genitori adottivi lavoravano e noi dovevamo rimboccarci le maniche e dare una mano.
Sebbene gli Spencer fossero brave persone, non riuscii mai a fidarmi di loro. Le cicatrici lasciate da mio padre e da mia madre, mi costrinsero a guardarli sempre con sospetto.
Anche il mio rapporto con l’altro sesso ne risultò compromesso. Fino a qualche mese prima, odiavo anche solo il pensiero che un uomo potesse sfiorarmi, li evitavo come la peste.
Ma in tutta quella sfiducia e quei sentimenti repressi, l’amicizia con Violet, si trasformò nell’unico faro che illuminava quella notte senza stelle in cui si era trasformata la mia vita.
Brillando di una luce costante e rassicurante, mi guidò verso quel porto sicuro che con il tempo imparai a riconoscere come famiglia, non quella biologica che mi aveva così tanto ferito, ma quella spirituale che mi aveva salvato.
Insieme affrontammo il liceo e poi i faticosi anni dell’università.
Faticosi perché dovevamo lavorare part time e seguire le lezioni dei nostri corsi.
- Sono esausta! – mi disse un pomeriggio, mentre si sedeva al bancone della caffetteria presso cui lavoravo.
Avevo avuto la fortuna di trovare lavoro in questo locale proprio vicino all’università. Questo mi faceva risparmiare tempo ed energie. Certo c’era il disagio di ritrovarmi alcuni compagni di corso intorno, pronti a giudicarmi o a ridicolizzarmi, ma il più delle volte la mia situazione suscitava ammirazione, quindi, tutto sommato, non potevo lamentarmi.
- Hai avuto una giornataccia? – chiesi io mentre le porgevo la tazza di cioccolata e panna, anticipando la sua richiesta.
- Altro che! Corso questa mattina e lavoro di pomeriggio! Questa sera arriverò a pezzi! – si lamentò.
- E dai! Falla finita! Lo so che ti piace lavorare in quel centro estetico. Torni sempre sprizzando gioia da tutti i pori! – la smascherai subito, ridendo alle sue spalle, mentre servivo alcuni clienti.
- Questo che c’entra! Sono felice del lavoro ma sono anche distrutta quando torno! – fece una pausa e poi aggiunse – Questo mi fa venire in mente che dovremmo cercare anche di divertirci un po’…perché questa volta non andiamo insieme al ballo di primavera organizzato dalla tua facoltà?
- Perché non ne ho voglia! Ho altro da fare. Non mi piace socializzare, anzi rettifico, trovo inutile socializzare e non ho intenzione di spendere soldi per un vestito da sera che troverei comunque insopportabile da indossare. Ti bastano come motivazioni? – risposi io sarcastica.
Violet non fece in tempo a contestare le mie motivazioni che un altro si prese la briga di farlo al posto suo.
- Se questo è il problema si può rimediare. Invece del ballo potremo andare al cinema. Non hai bisogno di alcun vestito da sera, puoi venire vestita come sei più comoda, a me piaci comunque. In quanto al socializzare, una serata a guardare un film non la si può certo considerare vita sociale! – disse interrompendo la nostra conversazione.
- E tu saresti? – chiese Violet, incuriosita per quell’intervento diretto, ma nello stesso tempo sulla difensiva, pronta a proteggermi da attenzioni che sapeva mi avrebbero messo in difficoltà.
- Piacere sono Brian Colton. Un ammiratore disperato, alla ricerca del più piccolo appiglio per riuscire a strappare un appuntamento a Hope, che a dispetto del suo nome, non fa altro che lasciarmi senza speranza. – e pronunciando quelle parole con tutta la presenza di spirito e giovialità possibile si presentò alla mia amica.
- Piacere di conoscerti! Io sono Violet, la sorella di Hope…e se ti stai chiedendo perché non ci somigliamo affatto, sappi che ci sono sorelle che lo sono per nascita e altre per affinità di spirito…e quest’ultime sono le più pericolose…quindi se hai intenzione di infastidire la mia amica, sappi che dovrai vedertela con me! – ribatté, mentre gli stringeva la mano con tutta la forza che aveva.
- Non ho cattive intenzioni! Il mio cuore è puro e i miei propositi onesti…e ve lo dimostrerò! – rispose lui.
Seguirono uno scambio di battute e una conversazione veloce alla quale mi rifiutai di prestare attenzione, concentrandomi sul mio lavoro.
- Un tipo stravagante non trovi? – mi chiese, una volta che se ne fu andato.
- Fastidioso direi! Sono settimane che mi tortura venendo qui in caffetteria e chiedendomi di uscire. – le risposi.
- Non vuoi provare a lasciarti un po’ andare? Magari questo tipo è in gamba. – cercò di convincermi Violet.
C’erano più di un motivo che mi impediva di uscire con quel tizio, che poi si sarebbe rivelata una delle persone più insopportabili che abbia mai incontrato ed in ultimo il mio principale torturatore.
- Violet, non ho tempo per queste cose. Devo lavorare per mantenermi negli studi, devo studiare e prepararmi per tre esami. La laurea in informatica non te la regalano e la specializzazione in cyber security mi richiederà più energie di quanto pensassi. Non ho davvero tempo per stare dietro ai capricci del primo ragazzo che si fa avanti. – Violet scosse il capo imbronciata, evidentemente non credeva alle mie parole.
- Non ti sto mentendo! Non è solo per quello che mi è successo da ragazza, davvero! Adesso non ho alcun interesse sentimentale, non sento la necessità di ricevere certe attenzioni e poi…sinceramente non da lui. – le dissi schiettamente.
- Perché? È carino e sembra a modo! Dagli una possibilità! – mi incoraggiò.
- Non ho tempo per certe cose! – sbottai esasperata - Devo lavorare e studiare. Voglio venire fuori dallo schifo di vita squallida che conduciamo. E poi a me lui non piace!
- Lo so! Conosco le tue priorità e nessuno ti sostiene più di me! Ma anche divertirsi e prendere la vita con più leggerezza non fa mica male! E poi scusa…cos’è che non ti piace di quel tizio? Alto, fisico da statua, profilo greco! Che gli manca? – chiese nuovamente, perché proprio non riusciva a comprendere come mai non avessi interesse per lui.
- Non lo so…ma c’è qualcosa che non mi piace, nei suoi modi, nel suo comportamento, nel suo sguardo, nei suoi atteggiamenti. È mellifluo! Lo sento a pelle! – rispondeva.
- Le trovi tutte tu le scuse! – ribatté la mia amica arrendendosi alla mia testardaggine.
Ma poi arrivò George e lui cambiò tutto!
Lui abbatté la mia diffidenza, guadagnò la mia fiducia, mi manifestò affetto, mi conquistò insegnandomi ad amare e a fidarmi dell’amore.
Era per lui che quella mattina mi ero vestita da sposa, era per lui che mi sarei convinta a pronunciare il fatidico sì, era lui che stava per realizzare una favola degna di un romanzo con la conclusione “e vissero felici e contenti”.
Lui mi aveva conquistata. Sarei diventata sua per sempre.
Con questa promessa di speranza ero salita sulla Buick Roadmaster del ’48, l’unica cosa che, di nascosto, fossi riuscita a pagare di quel matrimonio, per raggiungerlo finalmente e coronare il mio sogno d’amore.
Ma ad attendermi non c’era un sogno, ma l’ennesimo incubo, e questa volta non potevo chiudere gli occhi fingendo che ciò che vedevo non fosse reale.