3/155. L’infanzia di Hope
Le parole di Violet mi trasportarono per un breve istante alla mia infanzia e non potei fare a meno di ripensare a quel giorno.
- Mamma! MAMMA! – le mie urla riecheggiavano per tutto il salotto.
La tristezza albergava nella mia anima praticamente dal momento in cui nacqui, ma davanti il corpo senza vita di mia madre, a quel sentimento si aggiunse anche la disperazione.
Mia madre e mio padre erano stati fidanzati fin dal liceo. Lui era un promettente atleta e lei il capitano delle cheerleaders.
La loro unione era già scritta nel destino e sui muri di tutti i bagni della loro scuola. Quello che non c’era scritto però era che a forza di accoppiarsi, spesso senza precauzioni, ci sarebbe scappato quello per cui la natura aveva predisposto il rapporto sessuale, e se avessero studiato un po’ di scienze ogni tanto, lo avrebbero saputo.
Mia madre, che non era mai stata regolare con il suo periodo mestruale, si accorse troppo tardi di essere in cinta. Un aborto legale non era più concesso.
- Sono incinta Alex. – se ne uscì mia madre, mentre veniva accompagnata in auto a casa dal suo ragazzo, alla fine di una festa.
Ci fu l’inevitabile inchiodata nel bel mezzo della strada, che costò quasi la vita ad entrambi. Pieni di ardore giovanile, quella sera, sia mio padre che mia madre, presi da uno slancio di maturità basata praticamente sul nulla, decisero di sposarsi e di crescere quella bambina che si era attaccata alla vita, nonostante non fosse stata pianificata né desiderata e, proprio per questi motivi, decisero di chiamarmi Hope.
Ma quando non termini gli studi e non ti specializzi, devi fare i conti con la dura realtà dei sogni infranti e della difficoltà nel trovare un lavoro remunerato abbastanza da permetterti di sbarcare il lunario.
Così, l’amore e l’affiatamento dei miei genitori a poco a poco fu soffocato dalla frustrazione, dal risentimento e da una valanga di debiti.
Poi il risentimento si trasformò in liti furiose.
Mio padre iniziò ad affogare i suoi dispiacere nell’alcol e mia madre…anche.
Crebbi in un clima di terrore, imparando ad intuire il momento giusto per parlare, ma più spesso quando tacere.
Ma soprattutto seppi come custodire i miei segreti: i miei brillanti voti a scuola, la mia straordinaria fantasia, la mia bravura nel disegnare.
Qualità che i miei genitori avrebbero potuto facilmente scoprire se fossero stati presenti nella mia vita, se mi avessero guardata con un occhio diverso, se non avessero deciso di scaricare su di me tutta la colpa dei loro fallimenti.
All’età di sedici anni avvenne quell’incidente che dai miei incubi quotidiani mi catapultò direttamente all’inferno.
Rientrando a casa da scuola, trovai ad accogliermi uno spettacolo terrificante.
Mia madre giaceva in una pozza di sangue, con il cranio in frantumi, ai piedi di un tavolinetto in vetro, ridotto in mille pezzi. Mio padre, rannicchiato in un angolo, con le mani sporche di sangue, piangeva disperato ripetendo tra i singhiozzi: - Non sono stato io! Non l’ho fatto apposta! Era ubriaca! Ha iniziato lei!
Compresi in un attimo. Dalla loro ennesima lite, questa volta, mia madre non ne uscì viva.
Nonostante un profondo senso di smarrimento e disperazione, mi feci forza e attingendo ad una presenza di spirito che in quella circostanza anche a me risultò agghiacciante, chiamai la polizia, sperando in cuor mio di liberarmi definitivamente di tutto quell’astio, quel rancore, quel menefreghismo e quella violenza che mi avevano cresciuto in quei lunghi e tetri sedici anni.
Ma non fu così.
- Signori Brown, vostra figlia, al momento dell’incidente era ubriaca, i lividi ritrovati sul suo corpo potevano essere attribuiti alla caduta sul tavolino di vetro. Non abbiamo prove che si tratti di omicidio, sembra piuttosto un incidente domestico. – riferì ai miei nonni il commissario che si occupava del caso.
C’erano troppi ma e troppi se per accusare di omicidio mio padre in modo schiacciante e anche se si poteva intuire che ci fosse stata violenza domestica, dimostralo era praticamente impossibile, soprattutto dopo che i miei nonni paterni assunsero un buon avvocato per scagionare il figlio. Figlio del quale non volevano sapere nulla, ma a cui non potevano permettergli di infangare il nome della famiglia finendo in galera.
Io e mio padre tornammo di nuovo alla nostra squallida vita di solitudine, miseria, commiserazione e vizio.
All’inizio le cose procedettero bene grazie all’aiuto economico dei miei nonni paterni. Ma la mancanza di una qualifica che permettesse a mio padre di trovare un lavoro stabile diventò la scusa per giustificare la sua fannullaggine, tanto che, invece di approfittare del loro aiuto per concludere qualcosa di positivo, iniziò a prosciugare le loro risorse tra alcol e gioco d’azzardo.
Intanto io cercavo di sopravvivere concentrandomi sui miei studi, in cui avevo riposto la mia unica speranza di salvezza. Avevo giurato a me stessa che appena maggiorenne me ne sarei andata via da lì, sarei diventata indipendente e avrei sfondato, costringendo tutti quelli che mi avevano disprezzata per la mia condizione a rimangiarsi le loro ingiurie e le loro cattiverie.
Oltre a studiare, però, dovevo anche occuparmi della casa, incombenze svolte prima da mia madre e che ora toccavano a me.
La mia vita non era facile, ma ancora avevo la speranza dalla mia parte che mi motivava ad andare avanti.
Ero cosciente delle mie risorse. Sapevo di essere intelligente, capace ed intraprendente, inoltre, anche se nascosto sotto abiti larghi di seconda o terza mano, anche il mio aspetto aveva cominciato a fiorire.
Avevo ereditato il fisico atletico di mio padre e quello sinuoso di mia madre. Gli occhi azzurri di lui ed i capelli castano chiarissimo, quasi biondo di lei.
Stavo diventando uno spettacolo di curve e grazia incastonate in un fisico asciutto, non per mia volontà ovviamente, ma per mancanza di una corretta nutrizione.
Mio padre se ne era accorto da tempo, ma ora senza la presenza di mia madre, costantemente ubriaco, quell’uomo vigliacco e viscido, senza alcuna morale, iniziò a tradurre in azioni quei pensieri abominevoli che fino a quel momento non aveva osato rivelare.
- Hai finito di sparecchiare e lavare i piatti? – tuonò una sera in cui era particolarmente nervoso.
- Sì ho fatto tutto. Vado in camera mia a finire di studiare. – risposi immediatamente sia per rassicurarlo, in modo da non creare situazioni di tensione e rischiare di diventare il capro espiatorio della sua frustrazione, sia per togliermi subito di mezzo, non sopportando la sua presenza.
- Vai! Vai! Rinchiuditi in quella stanza! È insopportabile vivere qui! Io vado fuori! – e senza aspettare risposta, tanto non ce n’era bisogno, se ne andò sbattendo la porta.
Per me significava sia sollievo che angoscia.
Sollievo, perché sarei stata liberata dalla sua presenza fastidiosa ed irritante, ma angoscia perché sapevo che sarebbe ritornato ubriaco e quindi imprevedibilmente violento e scontento.
Ma quella notte, altri umori avevano preso il sopravvento su di lui.