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Capitolo III

I genitori si tolsero le scarpe piene di terra e le lasciarono davanti alla porta d’ingresso. Entrarono scalzi e si diressero al primo piano per concedersi un bagno rigenerante che consisteva nel lavarsi i piedi e le ascelle.

Nella loro famiglia il bagno completo nella vasca era una prerogativa del sabato sera, almeno per Annamaria, che ignorava se anche loro l’avessero mai fatto.

Mentre si avviavano sulla rampa di scale gli lanciò una domanda.

«Che vi faccio per primo?»

«Spaghetti. Il sugo ci sta già» rispose sua madre «a tuo padre fagli pure l’uovo in purgatorio, pieno di peperoncino. Mi raccomando.»

Annamaria non replicò e si mise all’opera, cucinare non la entusiasmava però lo faceva con diligenza e concentrazione. Rese piccante anche il condimento per la pasta e apparecchiò la tavola, senza dimenticare di riempire la caraffa di vino rosso, che serviva a lenire la fatica del padre quanto e più di un bagno caldo.

Quando i suoi genitori scesero le scale trovarono la tavola apparecchiata e il cibo pronto per essere consumato. Entrambi in tuta da ginnastica si avventarono sugli spaghetti e li divorarono con piacere. Suo padre in particolare, che mangiava a una velocità impressionante.

L’uomo, dopo aver ripulito il piatto, si rivolse alla figlia.

«Anna, accendi la televisione.»

Sua figlia ubbidì senza fiatare. Non sarebbe stato opportuno fargli notare che dare fuoco alla Rai era un’impresa di una portata troppo elevata per una semplice donna delle pulizie.

Inoltre non era il momento più opportuno per ironizzare. Le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e suo padre, avendo quattro dei cinque figli arruolati, era preoccupato.

Mentre seguivano il notiziario Annamaria osservò i suoi e notò che i capelli di entrambi avevano iniziato la loro scalata verso il bianco e che, forse, il ciclo aveva ricevuto un’accelerata anche per colpa delle loro ansie recenti.

La ragazza, cercò, a modo suo, di trasmettere loro la sua tranquillità.

«Papà, non vi preoccupate. I ragazzi non fanno servizio a Roma, per fortuna.»

«Sì, è vero. Ma sempre la divisa portano. Se restavano a Valle era meglio».

Allora intervenne sua madre.

«Carmine, hanno migliorato, o no?»

«Assunti’, non lo so. Se lavoravano con me avrebbero guadagnato di più e rischiato meno. Solo questo so.»

Annamaria pensò che suo padre avesse ragione, ma comprendeva la scelta dei suoi fratelli. Loro, a differenza sua, si erano creati lo spazio vitale lontani dal luogo natio.

Lei si era ritagliata il suo approfittando della possibilità che ti può offrire solo una piccola frazione, dove l’esistenza scorre al rallentatore. Il massimo per una persona che detesta la frenesia e odia la gente che si accalca.

Ma loro avevano scelto di andarsene perché mossi dall’aspirazione di elevare lo status sociale. Lei non possedeva questo tipo di interesse.

Esistono persone che illuminano gli ambienti con la sola presenza, altri quando li abbandonano. Annamaria né l’uno né l’altro, desiderava che la sua vita trascorresse inavvertita.

Non tanto dal resto dell’umanità, quanto da sé stessa. Temeva dover decidere, preferiva lasciare l’incombenza agli altri. O al destino.

Osservò ancora suo padre. Carmelo Schisano, da tutti chiamato Carmine per distinguerlo dal cugino carnale suo omonimo, aveva terminato di mangiare e, come da abitudine radicata nel tempo, mise la mano nel taschino per prendere il pacchetto di sigarette.

La figlia osservò, divertita, che, come sempre, il genitore aveva aperto la confezione dal lato sottostante, per evitare di prendere la sigaretta dalla parte del filtro.

Era una attenzione che lui si riservava perché lavorando il terreno aveva sempre le dita impolverate e non voleva mangiare terra. Non lo faceva per igiene. Lui la sigaretta la godeva, ma a condizione che il filtro fosse candido, privo di impurità.

Annamaria lasciò i genitori a confabulare tra loro sotto la cappa di fumo provocata dal padre e uscì nel cortile. Le galline erano rientrate nella gabbia che le avrebbe ospitate tutta la notte. Il cane, nella sua cuccia, vegliava sul territorio di sua competenza e, soprattutto, teneva sotto controllo la famiglia di gatti.

Controllava ogni loro passo e se si avvicinavano più del consentito li ringhiava. La ragazza pensò che l’animale agiva in quel modo più per consuetudine che per convinzione.

Una volta uno dei gatti, il più coraggioso della cucciolata, aveva oltrepassato la linea di confine senza provocare nessuna reazione rabbiosa al cane, che, anzi, aveva scodinzolato.

I quattro mici dormivano beati nella cuccetta di loro proprietà. In apparenza indifferenti a ogni circostanza esterna, in realtà pronti a destarsi e attaccare se avessero fiutato la presenza di qualche topo distratto, o poco informato sulla loro presenza.

Annamaria adorava i gatti, li considerava gli animali più fortunati del creato perché la natura li aveva dotati di una pigrizia ai limiti dell’indolenza, che ignoravano solo se avvistavano una preda da uccidere, e i ratti, per fortuna dell’uomo, rappresentavano il culmine della loro attività predatoria.

Era uscita per tenere compagnia a qualcuno di loro, nessuno degli animali che ravvivavano la corte di casa Schisano ritenne opportuno lasciare la propria posizione per raggiungerla, però. Rientrò per rimettere la cucina in ordine.

Al termine delle operazioni Annamaria si avviò in camera da letto. A breve anche i suoi sarebbero andati a dormire. Il giorno dopo ognuno di loro si sarebbe svegliato alle prime luci dell’alba, come accadeva da qualche anno per lei, da tempo immemorabile per i suoi genitori.

Fece la consueta tappa nel bagno, si lavò i denti dopo aver fatto la pipì per l’ultima volta, almeno per quel giorno, e raggiunse la sua stanza.

Appena entrata si tolse i vestiti, poi aprì il cassetto del comodino dove era riposto il pigiama. Lo prese e l’appoggiò sul letto. Era seduta sul materasso con addosso solo le mutandine e il reggiseno.

I capelli liberati dall’elastico che li raccoglieva le cadevano sulla schiena. Le cosce, sode e carnose, luccicavano il loro biancore inutilmente.

Annamaria costituiva uno spettacolo erotico ma non lo sapeva, o preferiva ignorarlo. Indossò gli indumenti da notte, ampi più del necessario come gli abiti dai quali si era appena disfatta, e cancellò ogni indizio di carnalità dal suo corpo.

Si distese sul letto e rimboccò le coperte. Non aveva freddo ma le piaceva dormire con le lenzuola che le accarezzavano il viso. In particolare quando pioveva. La serata si prospettava tranquilla dal punto di vista meteorologico, ma marzo, si sa, a volte sorprende.

Chiuse gli occhi e aspettò paziente che il sonno la raggiungesse. Si addormentò pensando ai suoi genitori. Leggere l’angoscia negli occhi degli altri la turbava, anche se erano persone estranee, ma la loro preoccupazione l’aveva coinvolta più del dovuto.

Annamaria non era in ansia solo per i fratelli poliziotti, pensava anche agli uomini della scorta ammazzati senza pietà e al prigioniero, Aldo Moro. Non sapeva chi fosse né cosa facesse, ma immaginare un individuo tenuto in ostaggio, qualunque fosse la ragione, la spaventava.

La stanchezza ebbe il sopravvento e la notte se la portò con sé, per coccolarla fino a quando non l’avrebbe riconsegnata al giorno successivo, e alle attenzioni dello zio Alfonso.

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