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Capitolo II

Abbandonò la villa chiudendosi il portone alle spalle e intraprese la salita che l’avrebbe riportata a Valle. Percorse il tragitto con la sua solita cadenza. Adottava sempre la stessa lentezza di movimenti, tranne quando si trattava di lavorare preferiva vivere in maniera assorta ogni tipo di attività.

Quando spuntò nella stradina che conduceva a casa sua, la stessa in cui si era imbattuta nel frizzante e lascivo virgulto di casa Gragnaniello, si sentì serena.

Quella piccola frazione, popolata da poche centinaia di persone, la faceva sentire bene. Mentre percorreva la strada che lambiva il campo di calcio riconobbe una figura a lei familiare.

Chi le stava venendo incontro era Stefano, il sordomuto che abitava a pochi metri da lei.

L’uomo, un sessantenne magro e calvo, le sorrise e, con lo sguardo, la invitò a seguirlo. Annamaria sapeva dove stava andando lui e accettò l’invito con piacere.

La destinazione era il sale e tabacchi, dove lui avrebbe comprato le sigarette e a lei avrebbe offerto un dolcetto. Lo faceva sempre quando la incontrava.

La ragazza era molto affezionata a quell’omino dallo sguardo acuto e che, quando sorrideva, sembrava un adolescente.

Percorsero il breve tragitto come di consueto. Lei in silenzio. Lui a gesticolare. Nessuno, a meno che non comprendesse il linguaggio dei segni, avrebbe mai saputo comprendere cosa stesse raccontando l’uomo.

Annamaria, facente parte del nutrito gruppo di persone che ignorano quel tipo di comunicazione, si limitò, come d’abitudine, ad ascoltarlo seguendo il movimento delle braccia. A lui andava bene così. A lei pure.

Quando entrarono nel negozio il tabaccaio prese quattro pacchetti di Nazionali senza filtro e li consegnò all’uomo che annuì e poi, con lo sguardo, indicò alla ragazza l’espositore di caramelle.

Annamaria scelse un pacchetto di caramelle a menta e lo ripose nella tasca dei pantaloni, abbondante quanto il resto dell’abbigliamento.

Durante il percorso a ritroso Stefano continuò nel ragionamento che aveva interrotto durante la permanenza nel sale e tabacchi. Oltre a gesticolare con vigore aveva gli occhi pieni di allegria.

La ragazza pensò che le stesse raccontando una barzelletta. In realtà stava solo dicendo quanto gradisse essere accompagnato da lei. Quell’uomo le voleva bene. Davvero; ed era l’unico. Almeno per il momento.

Camminarono spediti. Lui era abituato a procedere veloce e lei si doveva adeguare per non perdere nemmeno una battuta del dialogo in corso. Raggiunsero la destinazione in pochi minuti, se lei fosse stata sola ne avrebbe impiegato almeno il triplo.

Percorsero la salita che portava all’abitazione di Annamaria, giunti davanti al cancello Stefano la salutò regalandole l’ultimo sorriso della giornata, ma prima di scappare verso casa sua si portò l’indice della mano destra sulla guancia e lo fece roteare.

Le aveva chiesto di pensare a lui quando avrebbe mangiato le caramelle. Se lei avesse conosciuto il modo per farsi comprendere gli avrebbe risposto che la raccomandazione era superflua.

Non solo l’uomo faceva parte della sua vita, era anche il solo essere vivente che le provocava tenerezza.

Annamaria varcò il cancelletto e attraversò il cortile popolato da qualche gallina, un cane e una famiglia di gatti che vivevano in assoluta sintonia tra loro, ognuno rispettoso degli spazi altrui.

Quando entrò in casa avvertì la distonia di un ambiente enorme abitato da una sola persona. I suoi erano al lavoro nei campi e i quattro fratelli, tutti più grandi di lei, vivevano al Nord.

La costruzione, adatta a ospitare sette persone, era diventata eccessiva visto che il resto della famiglia o non c’era mai o, come nel caso dei germani, l’aveva abbandonata definitivamente.

Lei non aveva mai avuto un rapporto profondo coi fratelli. Tranne il primo che considerava un secondo padre. Da quando poi avevano scelto, tutti e quattro, di entrare a fare parte delle forze dell’ordine e si erano sposati con delle donne conosciute dove prestavano servizio non li aveva più visti.

Non le mancavano. Il suo carattere non comprendeva l’ipotesi di provare malinconia, e se anche fosse stata più sentimentale non avrebbe potuto rimpiangere ciò che non aveva mai percepito suo.

Prese un fiammifero e diede vita al bruciatore della cucina. Poi riempì di acqua una pentolina e aspettò che bollisse. Doveva solo aspettare che i maccheroni cuocessero, nel frattempo avrebbe riscaldato il sugo che sua madre aveva lasciato pronto dalla sera precedente e, una volta tutto pronto, si sarebbe concessa il piacere di mangiare la pastasciutta accompagnata dal pane.

Mentre attendeva la naturale evoluzione del ciclo di cottura già pregustava il sapore della pasta unita alla mollica. Adorava quel tipo di alimentazione che la saziava e le risparmiava l’incombenza di dover pensare, e preparare, il secondo.

Quando ebbe terminato il pranzo sparecchiò e andò a lavarsi i denti. Lo faceva anche dopo aver mangiato una caramella. Era maniacale, ma lo faceva per conservare il candore dei suoi denti e per evitare di dover ricorrere al dentista.

Quando si posizionò di fronte allo specchio del lavandino ignorò, come sempre, il suo volto. Se si fosse soffermata almeno un istante avrebbe notato che la natura era stata gentile con lei.

Non era dotata di una bellezza da far girare la testa ma il viso, tondo e armonioso come il resto del corpo, era gradevole. Tutto in lei sapeva di equilibrio. Aveva un naso piccolo e labbra carnose. Occhi neri contornati da ciglia corte e sopracciglia poco folte, ma neanche troppo sottili.

I capelli, scuri quanto le pupille, avrebbero costituito il suo pezzo forte se solo avesse scelto di pettinarli ogni tanto. Ma lei dopo averli lavati li lasciava asciugare all’aria e riteneva superfluo acconciarli con la spazzola. Preferiva che fosse la natura a indicare loro la direzione da seguire.

Annamaria non dava importanza al suo aspetto esteriore, per lei contava solo vivere nella forma più tranquilla possibile, e per farlo aveva sempre accantonato qualsiasi abitudine che la potesse rendere prigioniera. Compresa quella di pettinarsi.

Quando terminò di sciacquare i denti decise di godersi l’aria primaverile e uscì per dirigersi al campetto di calcio che distava uno sguardo da casa sua. Dalla finestra aveva visto che c’erano dei ragazzini impegnati a giocare con la foga di chi aveva atteso quel momento da molti mesi.

Si sedette sugli spalti e divenne l’unica spettatrice della partita di esordio per la stagione che stava per iniziare. Seguì con interesse la prestazione dei ragazzi anche se quello sport non l’attraeva. In realtà era più interessata alle grida che accompagnavano l’impegno dei contendenti. La divertiva constatare con quanta serietà affrontassero la gara.

Li conosceva tutti e pensò, con una punta di tristezza, che in quel rettangolo di gioco era presente la fanciullezza di Valle nella sua totalità.

Cacciò via la riflessione malinconica sostituendola con la considerazione che l’angolo di mondo nel quale aveva avuto la fortuna di nascere doveva la sua rassicurante tranquillità allo scarso numero di anime che lo popolavano.

Annamaria, da tutti considerata stupida, era una ragazza intelligente e riflessiva, ma teneva celate le sue analisi. Non amava parlare, per inclinazione naturale e mancanza di interlocutori.

Aveva perso le speranze di trovare comprensione quando, dopo la licenza media, i suoi non le avevano consentito di iscriversi alle scuole superiori.

I genitori non avevano agito per crudeltà ma per ignoranza. Erano certi che la loro unica figlia femmina non fosse all’altezza di prendere il diploma perché la ritenevano semi analfabeta come loro, e perché consideravano un inutile orpello il titolo accademico per colei che è destinata fare il mestiere di donna delle pulizie.

Annamaria non li aveva mai giudicati per questa loro decisione. Lei possedeva il dono, raro, dell’intuizione. Riusciva sempre a darsi una spiegazione, anche per questioni che non erano alla sua portata.

Grazie a questa sua peculiarità non si era rammaricata più del dovuto per aver dovuto rinunciare agli studi. Aveva sempre saputo che sarebbe diventata un’apprezzata lustratrice di interni e che quell’attività le sarebbe piaciuta perché non la impegnava mentalmente.

Era il lavoro più consono alle sue caratteristiche e lo considerava rilassante quanto l’abitare a Valle, anche quando le toccava, il giovedì, pulire l’appartamento di suo zio Alfonso, dai più conosciuto come il selvaggio.

L’uomo era stato sposato con la zia, Rosaria, che aveva avuto la pessima idea di lasciare il mondo prima del tempo e impedirsi, di conseguenza, di scoprire come una persona possa, con l’avanzare dell’età, perfezionare i propri difetti.

Ma forse sua zia era stata fortunata e si era risparmiata ulteriori tribolazioni, che erano state consegnate a lei, però.

Alfonso, o Fonsone, o il selvaggio, come lo chiamavano i suoi amici di Cervinara, non era un uomo violento e doveva il suo soprannome al fatto che, da ragazzo, mentre lavorava nei campi era stato punto da un calabrone che, attratto dal sudore, si era avvicinato troppo al suo avambraccio. Lui aveva cercato di allontanarlo, l’insetto, per reazione, gli aveva infilato il pungiglione nella carne.

La puntura generò, agli occhi dei compagni di lavoro, la sensazione di assistere, in tempo reale, alla crescita istantanea di un bozzo simile a un cratere.

Alfonso Terracciano, giovane e aitante agricoltore, non si scompose e continuò a lavorare senza nemmeno sciacquare la parte interessata. Il gonfiore sarebbe sparito dopo qualche giorno, senza lasciare nessun’impronta del suo passaggio.

Il selvaggio era stato innamorato di Assunta, la madre di Annamaria, e l’aveva chiesta in sposa, ma il futuro suocero gli aveva imposto di accasarsi con Rosaria, che era la primogenita. Lui, zotico ma non stupido, aveva dovuto accettare l’imposizione perché sapeva di non avere alternative.

Se anche si fosse rifiutato e avesse deciso di aspettare che qualcun altro sposasse la donna a lui proposta in dote Assunta non sarebbe mai stata sua. Il nonno di Annamaria, se possibile, superava suo genero per brutalità e non avrebbe tollerato il diniego.

Alfonso aveva sempre odiato il suocero per questo motivo, ma non aveva trovato vendetta. Il livore covato per anni lo aveva reso ancora più scorbutico, e adesso aveva trovato la persona da castigare. La ragazza sulla quale, e dentro la quale, riversare la sua rappresaglia.

La partitella tra amici era terminata. Annamaria non conosceva l’esito e non chiese il risultato ai ragazzi che le sfilarono davanti. Erano stanchi e non voleva aggiungere spossatezza facendo confessare la sconfitta a qualcuno di loro.

Restò sola ma non rientrò a casa. Scelse di aspettare il ritorno dei genitori tornassero dal lavoro e restò seduta a godersi il fresco della primavera per un’altra ora. Durante la quale ebbe la capacità di non pensare a niente, o, per lo meno, di volare con la fantasia da un argomento all’altro senza approfondirne nessuno in particolare.

Quando li vide in lontananza si alzò e li aspettò sulle gradinate. Il suo volto non si aprì al sorriso. Quello dei suoi nemmeno. Sua madre la salutò, almeno.

«Annamaria, che fai?»

«Niente. I ragazzi hanno fatto una partita.»

«Andiamo a casa» borbottò suo padre «ho fame».

Rientrarono in fila indiana e in perfetto silenzio. Il padre portava la zappa sulle spalle ma aveva la schiena dritta. La madre procedeva curva anche se non trasportava pesi, se non quelli dell’esistenza.

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