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Capítulo 3

Mi sento rinfrancato quando rientro nella galleria.

Guardo l'ora, è mezzogiorno, aspetto su una panchina, non ho fame perché ho un nodo allo stomaco. All'una torno al parcheggio pensando che dobbiamo chiarire, avrei dovuto essere più diplomatico.

Aspetto fuori fino alle due ma di Paolo non c'è traccia, vorrei chiamare Cosentino ma temo che sia andato a letto come mia madre.

Vado avanti e indietro, seduta sulla stessa panchina della galleria, guardando malinconicamente la gente che passa e il mio smartphone, sbuffando di noia davanti al supermercato. Ho un brutto presentimento, ho paura che il cretino in giacca e cravatta non torni a prendermi.

Alle tre, con un'ansia mai provata in vita mia, chiamo di nuovo Cosentino.

- Sono Elena, Paolo non è ancora tornato.

- Come mai non è tornato? Lo richiamo subito.... (cinque secondi di silenzio e poi un sospiro).... Elena, fammi un favore, non discutere con Paolo, cerca di non arrivare allo scontro con lui perché non gli fa bene, cerca di mediare, cerca di andarci di nuovo. Va bene, fallo per me.

Lui dice, e io capisco subito, che è lui a comandare.

- OK grazie, farò una prova.

Il mio futuro dipende da Paolo, se Paolo mi vuole in gonnella devo accontentarlo, altrimenti non mi renderà la vita facile.

Il mio futuro dipende da lui, ripeto sconsolato, perché è lui che poi andrà a parlare con Cosentino.

Il telefono squilla e Cosentino rientra.

- Pronti?

- Elena, Paolo mi ha detto che finirà le sue visite e tornerà per te, tranquilla. Lo ringrazio di cuore per il suo interessamento.

Aspetto le quattro e ancora non torna, mi viene da piangere, ultimamente piango così facilmente, ho gli occhi che lacrimano, voglio che nessuno mi veda, così vado in bagno, mi chiudo dentro e piango di frustrazione tutte le lacrime che riesco a versare, perché non pensavo davvero che il mio primo giorno sarebbe stato così in salita.

Alle cinque non è ancora arrivato, non è tornato, così inizio a pensare tristemente di tornare da sola in treno, ma ho solo cinquanta euro e basterebbero a malapena per chiamare un taxi.

Arrivano le sette, sono stanca di stare seduta e con borsa e borsetta cammino su e giù per la galleria ancora e ancora finché non squilla il telefono. È la mamma.

- Tesoro, come stai?

Lui me lo chiede e io non voglio dargli altre preoccupazioni o pensieri e cerco di non piangere di nuovo.

- Buona mamma.

- A che ora tornerete?

- Sto ancora lavorando, credo che sarò a casa per le nove e mezza.

Lo dico perché è il tempo che ci vuole per tornare a casa di Cosentino e quello che impiega l'autobus per riportarmi da lei e sono in parte contento che non mi veda al telefono ma mi senta solo.

- Sei tornato così tardi, ma sei in piedi dalle sei.

- Oggi è stata dura, è il mio primo giorno, ma non preoccupatevi, sono forte.

Rispondo anche se non è vero, non voglio continuare a parlare con lei, questa situazione che si è creata mi fa stare male.

Mi sono messo in un pasticcio che non posso risolvere da solo e lei non può aiutarmi. Quindi sto chiudendo.

- Ora ho ancora un po' da fare, ti manderò un messaggio prima di prendere l'autobus.

Dico, lui mi saluta e io riattacco, sospirando e guardando il soffitto al centro, sperando che non mi cada in testa perché l'unica cosa che mi resta da fare è l'en plein.

Alle otto si spengono le luci nei negozi, alle nove una guardia mi invita ad andarmene, stanno chiudendo, sono sull'orlo dell'esaurimento, sono tentata di lanciare la borsa con il tablet contro una vetrina, ma non riesco a trattenermi perché suppongo che dovrei pagare e sarebbe il mio primo e ultimo giorno di lavoro, anche se forse lo è già.

Entro nel parcheggio al buio, Paolo non è tornato, meglio chiamare un taxi e farmi dare un passaggio fino alla stazione. Salgo sul treno senza biglietto e pago la multa, poi dalla stazione prendo l'autobus per tornare a casa.

Ci penso quando vengo abbagliato dai fari di un'auto, chiudo gli occhi per un attimo e quando li riapro mi accorgo che si tratta di un'Audi.

Spero vivamente che sia lui, mi tremano le gambe forse perché sono a digiuno da stamattina dopo solo due caffè e temo che non sia lui.

Il mio cuore, invece, si apre, sboccia, lui torna dopo avermi lasciata sola per dieci ore, io gli vado incontro trattenendo lacrime di frustrazione.

È l'Audi A nera e riesco a distinguere la sua figura all'interno grazie all'aiuto di un lampione, che la illumina appena.

Si ferma accanto a me, vado ad aprire la porta ma è chiusa dall'interno. Il finestrino si abbassa di cinque centimetri e si sporge verso di me.

- Domani ti vestirai come ti ho detto? Sì o no?

Dice con severità, mentre io sono a pezzi.

- Sì.

Sussurro tristemente.

- Come ti vestirai?

- Indosserò gonna, collant e tacchi.

Rispondo sapendo che per lui valgo meno di una gomma da masticare sotto la scarpa.

- Voglio che tu capisca che le regole le ho stabilite io e che se vuoi continuare è meglio che le rispetti.

In un altro contesto lo manderei a quel paese, ma io dipendo da lui, me lo ha detto anche Cosentino. Non discutere con lui. Faccio un respiro profondo, lui vuole vedermi umiliato e io mi umilio da solo, riprendimi.

- Farò tutto ciò che mi chiederà di fare.

Rispondo mentre le lacrime mi scendono sul viso, umiliato.

La serratura si apre, lui scende e, girando l'auto, mi raggiunge, senza sorrisi, senza vittorie sul suo volto mentre mi asciugo le lacrime con il dorso della mano. Prende le mie borse e le mette sul sedile posteriore.

Non ho il coraggio di salire, rimango ferma a guardarlo e chiudo la porta sul retro e lui mi fissa negli occhi, mi guarda, mentre dovrei essere io a farlo ma, i miei nervi sono a pezzi e voglio solo andare a casa, che lui mi porti a casa.

- Andiamo.

Mi dice e io accetto l'invito, sedendomi sulla comoda poltrona accanto a lui. Non voglio parlare con lui, non voglio sapere dove è stato, voglio solo andare a casa.

Mi sembra della stessa idea e guido nel silenzio più assoluto. Senza rendermene conto, sprofondo tra le braccia di Morfeo, mi addormento esausto senza dormire e dormo per tutte le due ore senza svegliarmi, finché una mano calda mi stringe il ginocchio, svegliandomi, rendendomi conto che è la sua mano.

- Siamo arrivati, siamo da Cosentino.

- Che ora è?

- Sono le undici passate e tu hai dormito tutto il tempo?

Mi stropiccio gli occhi concentrandomi per capire da che parte della strada si è fermato, apro la porta e una folata di aria fredda mi solletica il viso, ho ancora due o tre autobus prima che arrivi la mezzanotte e con essa la linea si chiuda.

- ... Dove hai parcheggiato?

Chiede come se volesse accompagnarmi alla mia eventuale auto.

- Sono venuto in autobus.

- Perché?

Mi chiede guardandomi come se fossi un alieno.

- Perché non ho una macchina.

- Non avete un'auto e volete un lavoro che vi faccia guidare per ore e ore?

Chiede serio, pensieroso, forse sarebbe stato meglio se gli avessi detto che ero in officina.

- Ho la patente e ho guidato finché ho avuto un'auto, quindi so come muovermi a Paolo.

Lo dico in tono sommesso, non cercando un confronto inutile.

- Dai... chiudi la porta e ti porto a casa.

Mi piacerebbe scendere e mettere quanta più distanza possibile tra me e lui, ma non credo che accetterebbe il mio rifiuto e poi il viaggio di ritorno è molto più che gradito, se non addirittura vitale.

Gli dico l'indirizzo, lui lo inserisce nel browser e un quarto d'ora dopo sono finalmente a casa, distrutto nello spirito e nel corpo.

Domani vengo a prenderti qui, è inutile che tu venga da Cosentino, vengo alle sette, ci vediamo qui".

Dice a bassa voce, io annuisco e anche se lo odio non riesco a scendere senza ringraziarlo, con zero voglia di passare un altro giorno con lui, perché sicuramente mi metterà di nuovo alla prova per spezzarmi e oggi ci è quasi riuscito.

- Grazie.

Sussurro, guardandolo negli occhi prima di aprire la porta.

- Perché?

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