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5 IL RISVEGLIO – nov 2020

https://www.youtube.com/watch?v=Mjpu0-o9iek Aerodynamic

Ma possibile che una giornata debba iniziare con un sogno così? È atroce, sono già stanco morto e totalmente depresso.

Devo andare al lavoro di corsa, sta diluviando e devo prendere i mezzi. Non trovo due calzini uguali. Non dico proprio uguali ma almeno simili. Ma che la lavatrice si mangia i calzini? ‘Sta cosa non la capirò mai.

Chiedo ad Alexa di mettere i Daft Punk e prontamente parte con Aerodynamic, mentre ingoio del caffè amaro che sembra una brodaglia e un pezzo di pane, lasciato sulla tavola la sera prima. Poi, con espressione disgustata, guardo il pezzo di pane: «Ma che è quello del sogno?»

Mi sembra di sentire in bocca il sapore della malva, l’odore del lenzuolo impolverato usato per coprire il letto e del legno della credenza di quella casetta di pietra… mi chiedo se sto impazzendo.

Rivolgo per un attimo l’attenzione al telefono, scorrendo le notizie del giorno e, come ogni dannato risveglio, non fanno altro che scrivere quanti contagiati ci sono, quanti morti, quanti tamponi, quanti novax, quanti notav, quanti nolat (come si chiamavano quelli che protestavano per il latte anni fa?).

Schifato tiro il pane cercando di centrare il secchio, mi infilo anche l’altra scarpa, metto giaccone e mascherina e sbatto la porta.

«Cazzo! La chiave dentro! Che giornata di merda!»

Penserò al problema al rientro, stasera. “Avrò dato da mangiare al gatto?”, mi chiedo.

E rimanendo con il dubbio e con la preoccupazione della chiave mi infilo nel primo autobus che passa, senza neanche stare attento al numero. Sono già tutto fradicio; l’ombrello, che nel frattempo si è rigirato diverse volte, scola gocce di pioggia nel risvolto dei pantaloni e questi, colmi, riversano rivoli d’acqua nelle scarpe.

«Quasi quasi era meglio il sogno», dico tra me e me.

Una signora mi osserva. Sono stanco di prima mattina, stressatissimo, bagnato e depresso. E il sapore di semi non se ne va. E l’inquietudine del muro ancora mi pervade la bocca dello stomaco. E le scarpe sono barche e vorrebbero salpare via, lontano da tutto e da tutti.

Finalmente arrivo, salgo di corsa le scale, sono in ritardo.

«Temperatura, per favore», chiede l’usciere.

«Cazzo ma se ce c’avevo la febbre me ne stavo a casa, no?»

Tiro fuori il badge, passa sotto il lettore, ok posso andare.

Salto e svicolo postazioni fino ad arrivare alla mia, getto borsa, sciarpa, mantello e maschera e tolgo pure le scarpe. Sono stanco. Prendo le cuffie, accendo il pc, neanche 10 secondi e... «Buongiorno, assistenza tecnica, come posso esserle utile?»

Un sorriso fintamente cordiale si fa strada tra le mie guance che, ormai abituate, si accomodano tra il tirare delle orecchie e il fastidio delle cuffie. Dovrò recuperare il ritardo, quindi probabilmente non mangerò a pranzo. Sarà carino passare tutta la giornata col sapore di pane secco e malva in bocca. Oddio quanto mi odio, quanto odio ‘sta vita. Le ore si susseguono lente e noiose, finché non è ora di tornare a casa. Il tragitto del rientro è più calmo e senza fretta. A parte Fred non mi aspetta nessuno a casa. Alla fine, almeno questo è il bello di essere single, posso fare ciò che mi pare.

Cioè alzarmi di corsa, guardare al volo il telefono, trangugiare del pane secco, scordarmi le chiavi, bagnarmi, arrivare tardi, lavorare otto ore e tornare a casa. Che tristezza. Mentre rientro, a pochi passi da casa, ho il flash delle chiavi lasciate nella toppa della porta. Non posso neanche andare dai miei a prendere il doppione. Non so per quale motivo ma continuo ad avvicinarmi a casa, anziché cercare un modo per aprire la porta; magari dovrei chiamare un fabbro…

Trovo il portoncino aperto e salgo i gradini fino al terzo e ultimo piano, quello di casa mia. Mi siedo con le spalle poggiate alla porta e, sconsolato, mentre sento in sottofondo Alexa che ancora manda canzoni dei Daft Punk a mazzetta da stamattina, appoggio la fronte sulle ginocchia, rannicchiato. Piango. Da quanto tempo non piangevo?

Non ho pianto neanche quando ci siamo lasciati… forse.

Anzi, se devo dirla tutta, per un po’ mi sono sentito sollevato, al sapermi libero da vincoli. Avrei potuto fare tardi la sera, mangiare ciò che volevo, vestirmi come volevo, lavarmi quando volevo. Avrei potuto farmi crescere la barba, spendere soldi per giocare qualche scommessa e, finalmente, comprarmi quella chitarra. Che poi la chitarra l’ho pure comprata, ma l’ho usata poco: i vicini sembrano non apprezzare…

Sfinito, ancora umido e con la testa piena di cose disturbanti – come il suo culo e le sue mani – mi addormento sulla soglia di casa, in una posizione che anche un clochard avrebbe più dignità e si sarebbe procurato un cartone per stendersi.

«Tesoro che ti succede? Oddio è bollente, portiamolo in casa. Signora ha il numero di un fabbro? Grazie davvero».

La vicina deve aver chiamato i miei genitori che prontamente sono accorsi ad assistermi. Ho quarant’anni, mica dieci. Eppure, ho dormito sul pianerottolo del palazzo. Che uomo, eh?

«Ci sentiamo domani Giovanni, riposati e bevi, ti ho lasciato la bottiglietta sul comodino», sussurra mia madre.

Annuisco e chiudo gli occhi. Ho la febbre, lo sento e mi batte la fronte con un ritmo cadenzato. Pochi istanti prima di lasciarmi andare al sonno ripenso al maledetto muro e che, forse, sarebbe stato meglio non essere single.

«Alessia, Alezza, Almestia... Come si chiama ‘stattrezzo?», blatera mio padre a bassa voce, tentando di spegnere l’amica cassa intelligente.

Mi abbandono al caldo abbraccio di Morfeo, delle lenzuola e della voce rasserenante di genitori presenti ma, fortunatamente, non invadenti. È un bravo cristiano papà, chissà cosa pensa di me.

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