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0 INTRO – mar 2021

https://www.youtube.com/watch?v=IluRBvnYMoY Give life back to music

«Ciao amico, che succede? Che ti prende?», mi chiese preoccupato Mirko.

«Ma niente, boh... Oggi mi sono svegliato così».

«Dai andiamo a fa’ du’ passi, che te tiri su...», propose.

Mi incamminai con il mio amico verso il parco, ma la mente viaggiava per i fatti suoi. I pensieri non mi consentivano di essere presente e quel fondo di malinconia e tristezza svuotava il cuore di buoni propositi e voglia di fare. Riuscivo a capire benissimo cosa mi stesse succedendo: ero innamorato.

E non potevo pensare ad altro. E ogni volta poi era sempre la stessa storia.

Ci stavo male, andavo in fissa, un velo di nostalgia misto a depressione si impossessava del mio volto tanto che risultavo, visto da fuori, uno zombie arrancante.

“Perché l’amore mi fa così male? E perché mi sono innamorato di nuovo?”

Me ne accorsi proprio quella notte, anche se l’apprezzamento c’era già stato da sempre, da anni. Eppure, solo in quel momento riuscii a capire che si trattava proprio di un sentimento maturo, potente, pungente.

Alle due di notte avevo sbarrato gli occhi già con quell’idea in testa. Mi ricordo di essere rimasto a fissare il soffitto per qualche secondo pensando: “Sì, è proprio amore!” e poi, come se nulla fosse, ero ricrollato.

Mi ero addormentato, quella sera, leggendo un libro che parlava di una storia d’amore un po’ complicata, dove tutto gira intorno a una parolina scambiata tra i due ragazzi, semplice ma disarmante allo stesso tempo: Grazie. E con la sensazione addosso di quella storia mai consumata realmente, con in sottofondo Give life back to music, mi ero appisolato.

Forse sarà stato quel libro, forse quella canzone che, estremizzando, ti martella in continuazione: “Let the music in tonight, just turn on the music, let the music of your life... (Lascia che la musica entri stanotte, basta accendere la musica, fa entrare la musica della tua vita...)”, come a volerti convincere di cedere la tua vita alla musica, per farla risorgere, in uno slancio emotivo degno del sentimento incondizionato che si prova verso una creatura da crescere e per la quale non vedi l’ora di avere cura…

Ma io dalle due di quella notte potevo considerarmi innamorato.

Se ne accorse il mio amico quando, senza attenzione, oltrepassai il punto dove si era fermato e continuai a camminare imperterrito, dando calci ai sassi che incontravo sul sentiero, assente, preda delle mie paranoie.

«Non me di' che te sei innamorato!», esclamò.

Mi girai che era lontano almeno venti metri.

«C’hai ‘na faccia che, guarda... fai pietà! Ma almeno se po' sape’ de chi se tratta?»

Mi avvicinai a lui guardando sempre verso il basso, ormai la sensazione di essere abbandonato aveva invaso tutto il mio animo. Mi sentivo con un cane lasciato al bordo di un’autostrada con l’autogrill, l’unico accesso a qualcosa di commestibile, nella carreggiata opposta.

Ci sedemmo quasi in contemporanea su una panchina di legno, scomoda e umida, ma non me ne importava. Ora c’era solo quel pensiero fisso.

«Cioè, io ero innamorato e me ne sono accorto solo ora, capisci? Ora che non è possibile tornare indietro, che nulla sarà mai più recuperabile, che non c’è più niente da fare, che tutto è ormai perduto...»

«E finiscila de fa’ er melodrammatico e dimme chi è ‘sta ragazza? È morta pure questa che ne parli così? Voglio sape’ chi cazzo è!», urlò con la vena al centro della fronte che pulsava, guardandomi con gli occhi spalancati, come se volesse prendermi a pugni da un momento all’altro.

«Guarda ‘sto video», replicai avvicinandogli il telefono con lo schermo già pronto per essere avviato, come se l’avessi già visto decine di volte, cosa che effettivamente era stata, infatti.

«Ma tu sei scemo!» Si alzò urlando. «Tu stai fòri de testa, lo sai? Tutte ‘ste menate e io ero pure preoccupato. Ma guarda... Mamma mia non t’avvicina’ che te meno».

Riprese il telefono continuando a sbraitare, lanciandomi occhiatacce.

«Io non ce posso crede’, te stai a usci' fori de testa...»

«Oh, e guarda!», a un certo punto dissi, indicando lo schermo. «Se fa esplode’!!!»

Una lacrima scese giù lungo la guancia, come se a farsi esplodere fosse stato un parente, un amico, la mia ragazza, il gatto.

«Ma te davero stai a di'? Cioè, te stai a piagne perché i Daft Punk se so’ divisi? Ma tu stai male sul serio, fatte vede' da uno bravo», e alzandosi, gesticolando e raccomandandomi un posto dove sarei dovuto andare non proprio a portata di mano, si allontanò. Prese il telefono e, distante qualche metro da me, quasi a ridosso del laghetto, cominciò a parlare e a sbraitare.

Non sapevo con chi stesse dialogando, ma sicuramente parlava di me.

Di certo, non poteva parlare per me. Lui che ne poteva sapere di cosa fosse successo, di cosa aveva significato avere la loro musica come colonna sonora dall’adolescenza in poi – fino a questi quaranta anni – di cosa fossero sempre riusciti, quel robotico duo, a passarmi, con i loro pezzi, le loro musiche, i loro testi così crudi, stretti e martellanti.

Mi alzai, osservando il sole non più alto in cielo, ma che ancora poteva stiepidire il mio viso scoperto e pensai che, forse anche io, mi sarei fatto esplodere per quel testa a pera del mio amico. Così come avevo visto fare a ripetizione in quel video chiamato epilogue. E che forse, dopotutto, lui era l’unica persona per la quale l’avrei fatto davvero…

Per il video epilogue clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=DuDX6wNfjqc

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