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Capitolo 2

Emma è nel suo habitat; ha sempre sognato una moto. Lontano dalla monotonia, lontano da tutto ciò che la disturbava, con la sua moto è arrivata in posti stupendi.

Lui, dietro di lei, si tiene stringendola.

Emma è lì che guida; non sa nemmeno dove riportare Cristopher, sta riprendendo confidenza con l’assenza della sua moto.

“Ti stai divertendo?” le chiede lui.

“Da morire!” dice lei, voltandosi leggermente.

“Guarda avanti,” le gira delicatamente il volto con la mano.

“Sai dove accompagnarmi?”

“No,” dice lei, guardandolo dallo specchietto e sorridendo.

Lui inizia a indicarle la via; lei sfreccia senza esitazione, come se fosse nata sulla moto.

“Fermati qui. Fammi scendere che ti apro il cancello.”

Emma rallenta e si ferma di fronte a uno splendido casale in mattoni rossi.

“Entra e parcheggiati lì.”

Emma esegue, scende dalla moto e prende una boccata d’aria, come per fare il pieno di quel momento.

“Mi potresti chiamare un taxi?” Emma si volta porgendogli le chiavi. “Lo aspetto qui fuori.”

Cristopher la guarda e scuote la testa.

“Fammi riprendere un attimo e ti accompagno io con la macchina. Dove vuoi che ti mandi a quest’ora?”

Effettivamente, erano le tre del mattino; Emma non sapeva assolutamente dove fosse.

Lo segue, facendo spallucce.

Apre la porta e Emma rimane stupefatta.

Un enorme salone con due divani a L di fronte a un camino, un’enorme TV.

Un salone dai colori accoglienti, con un profumo di pino nell’aria.

“Vuoi qualcosa di pulito per cambiarti?” le fa cenno Cristopher.

“Ma no, dai, non disturbarti.” Emma lo guarda; si è sbottonato la camicia e si intravedono i pettorali scolpiti. Una tartaruga ben definita. Ha una carnagione olivastra, che, con l’abbronzatura estiva, risulta ancora più scura.

Ripensa al fatto che ha 38 anni, e che davvero non li dimostra.

“Vado a prenderti qualcosa, torno subito. Versati da bere, fai come fossi a casa tua. Lì dietro c’è la cucina,” dice sparendo per le scale e indicando la porta scorrevole.

Emma apre la porta e si ritrova in una cucina enorme, in muratura. Un’isola centrale con cinque sgabelli in legno. Rifinita tutta in legno, la cucina la stupisce quanto l’enorme salone.

Sul lavello sono poggiati dei bicchieri; ne prende uno e apre l’acqua del rubinetto.

Si poggia al lavello e si guarda intorno sorseggiando l’acqua.

“Hei, ho anche altro oltre all’acqua.” Cristopher arriva e la fa sobbalzare.

“Non volevo spaventarti!”

“Scusa, ero un attimo persa. Comunque, hai una bellissima casa.”

“Grazie!”

“Tieni, dovrebbero andarti queste cose. Puoi cambiarti in sala; io mi preparo qualcosa da bere. In alternativa, in bagno.” Gli porge una maglia e un pantalone di una tuta.

“Vado in sala.”

Emma va in salone e chiude la porta.

“Cosa bevi?” le chiede lui da dietro la porta.

“Analcolico?”

“Sei astemia?”

“C’è qualche problema?” sorride lei.

“No, no.”

La porta della sala si apre; si è sciolta i capelli, rossi e ribelli. La maglia che le ha dato le va abbastanza larga. Anche i pantaloni sono grandi. Lo guarda e gli sorride.

“Per quello che so, potresti essere un serial killer. Chi sei?” Si siede lei, iniziando a sgranocchiare i salatini.

Lo guarda con i suoi grandi occhi marroni.

“Sono Cristopher, ho 38 anni, vivo qui a Roma da 8 anni. Ho fatto il militare per 11 anni, ora faccio il barista. E tu?” La guarda negli occhi, seduto di fronte a lei mentre sorseggia uno spritz.

Si è cambiato; porta una maglia bianca, attillata, che disegna perfettamente il suo corpo.

“Non sono un serial killer.” Lo guarda e scoppiano a ridere.

“Ah ottimo, allora posso tirare di nuovo fuori i coltelli che avevo nascosto!” la guarda sorridendo.

“Sto studiando giurisprudenza; mi mancano 4 esami per la Laurea. Ho sempre vissuto qui, abito sopra al Bar di Isa. Nel poco tempo libero che ho, corro,” sgranocchia un altro salatino, sospirando.

“Quanti anni hai?” la guarda negli occhi. È disarmante quando la guarda, ha occhi così particolari, di un colore così diverso, così lucenti.

“26.”

“Sei giovane.”

“Oddio, è un problema per qualche motivo?”

“No, no, assolutamente; era una constatazione.”

“Ti fa male la mano?”

“Oddio, mi inizia a dare fastidio sinceramente. Nulla di insopportabile! Comunque, vuoi che ti riaccompagni?”

“Mi dispiace farti muovere con questa mano.”

“Vuoi dormire qui?”

Emma rimane un attimo senza respiro; questo tipo lo conosce sì e no da 5 ore. Si era al bar di Isa, quindi lei è molto selettiva nell’assumere personale; se fosse un pazzo maniaco, non l’avrebbe assunto.

“Oddio, non so, ma non ti disturbo?”

“Tu dormi nella mia camera; io qui sotto sul divano, ok?”

“No, dormo io sul divano!”

“Su questo ti dico di no. Mi hai supportato per una serata; il minimo che possa fare è darti il mio letto.”

“Ma non ti creo problemi?”

“Sono solo, Emma, non vive nessuno con me. Non arriveranno fidanzate gelose,” ride lui.

Emma lo segue.

“Vieni, la camera è questa.” È una stupenda stanza con grandi finestre, tutta in legno scuro. Lenzuola chiare. Una vasca idromassaggio al centro della camera.

“Il bagno.” È enorme anche il bagno, con una doccia.

“Gli asciugamani puliti sono lì.”

“Davvero, è troppo Cristopher. Non posso. Fammi dormire in salone.”

“Per favore,” le prende la mano.

“Non… non credo di… Forse è il caso che chiami Isa e mi faccia venire a prendere.”

“Ok, ti accompagno io. Tranquilla, ho capito.”

Emma rimane in silenzio. È troppo; lui la guarda in un modo così particolare. Così intenso.

Dormire nel suo letto.

Emma è sola da 4 anni; dopo che sua mamma è morta, non ha più voluto avere accanto nessuno. Si era lasciata con il suo fidanzato storico poco prima della morte di sua mamma.

Da quattro anni non rimane così a lungo sola con un uomo; Cristopher, però, la mette a suo agio. È calmo. Pacato.

Scende le scale di nuovo, tornando in salone.

“Aspettami qui, prendo le chiavi e prendiamo l’ascensore per scendere a prendere la macchina.”

Sparisce per pochi secondi, poi ricompare.

“Vieni,” la chiama.

Si aprono le porte dell’ascensore di fronte a loro.

Lui le fa cenno di entrare.

L’ascensore è molto piccolo. Sono vicini; Emma riesce a respirare il suo odore, sa di buono, di liquirizia e menta. Chiude per un secondo gli occhi.

Li riapre; lui è di fronte al suo viso. Di scatto si tira indietro, battendo la testa contro la parete dell’ascensore.

Di nuovo lui scoppia in una risata dirompente.

“Scusa,” esclama lui. “Non pensavo di spaventarti.”

“E che…” balbetta lei, massaggiandosi la testa.

“Mi metti in difficoltà!” esclama, guardandolo.

“Scusa!” si volta lui, sorridendo, mentre apre una T-Roc nero con rifiniture rosse.

Emma si ferma un attimo; non c’è solo quella macchina, ce ne sono altre. Non sa di preciso quali siano, perché non è pratica.

“Sali?”

“Sì, arrivo. Scusa.”

“Vuoi che guidi io?” esclama Emma.

“Capisco che tu ci abbia preso gusto, ma per stasera basta così.”

Lui è solo da 8 anni. Ha avuto relazioni di poco conto, ma realmente è solo da 8 anni.

Andrea, la sua donna, è morta con l’esplosione di una bomba 8 anni fa, di fronte a lui, che non ha potuto fare nulla per salvarla.

Emma è la prima persona che riesce a parlare con lui senza doversi togliere qualcosa per attirare la sua attenzione. Di solito, le donne fanno la fila per togliersi qualche indumento.

“Al bar di Isa, giusto?”

Lei lo guarda, annuisce e poi si volta.

Lui accende la radio; parte una playlist Spotify. Il Bacio di Klimt; Emma inizia a cantare.

Lui la guarda cantare, rapito.

“Non guardarmi così,” ride lei.

“Perché? Sei bravissima!”

“Bugiardo,” gli bussa lei sulla spalla.

“Sai che non è vero,” la guarda lui.

“Non cantavo da molto… quattro anni, credo.” Si ferma a pensare, con lo sguardo perso.

“Per chi hai cantato l’ultima volta?” la riporta lui alla realtà.

“Mamma…” piange; le lacrime escono da sole. Non si fermano.

Lui si volta, accosta l’auto. Senza nemmeno rendersene conto, si ritrova in braccio a lui sul sedile del conducente, con le gambe sdraiate sul sedile del passeggero.

“Scusami! Scusami, non si fermano,” ha gli occhi pieni di lacrime e continua ad asciugarli con il dorso della mano.

“Rimaniamo qui e aspettiamo che si fermino. Non ci muoviamo.” Gli accarezza il viso delicatamente, asciugando poi con il pollice le lacrime.

“Ti sto bagnando la maglietta,” fa per scansarsi.

“Ti ho insanguinato il vestito, siamo pari,” sorride lui.

“Mi confondi…” lo guarda lei. “Non mi piace che tu riesca a farlo,” lo guarda seria.

“Scusami,” alza le spalle lui, mantenendo comunque la sua mano sulla vita di lei. Le lacrime hanno smesso di scendere, il volto leggermente segnato; gli occhi, leggermente ancora gonfi.

“Posso baciarti?” gli chiede lui.

“Assolutamente no,” esclama lei.

“Vuoi baciarmi?” Di nuovo lui la incalza.

“No,” secca lei.

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