Capitolo V
Dopo quella mattina i nostri incontri assunsero una cadenza settimanale. Mi veniva a prendere col motorino e cambiava sempre luogo. Sembrava conoscesse ogni lembo di periferia ove esistesse un luogo isolato e, soprattutto, dove potesse distendermi con la faccia sull’erba o sul terreno.
Durante l’amplesso era silenzioso, si concentrava come se stesse sostenendo un’interrogazione. Ma quello che mi deludeva di più era il suo disinteresse verso qualunque tipo di effusione.
Agognavo sentire le sue mani sfiorarmi. Niente. Non mi ha mai accarezzato, nemmeno il culo prima di prenderselo.
Una volta mi portò nel ballatoio del condominio dove abitava. Al lato della cabina di manovra dell’ascensore c’era uno sgabuzzino che serviva da deposito per gli attrezzi da lavoro.
L’ingresso era così basso che un nano avrebbe trovato difficoltà a entrare. Ci infilammo dentro quasi strisciando. Credo che mi abbia portato in quel posto perché gli mancava che il mio viso assaggiasse qualcosa di più consistente del prato o del terriccio.
L’ambiente era strettissimo e per la prima volta lo sentii appiccicato sopra di me. Le gambe che premevano sulle mie, il bacino attaccato ai glutei, mi eccitai e dissi sottovoce:
«Mi vieni fuori?»
Non rispose, immaginai che avesse acconsentito. Anche se mi sembrava una cazzata, come potevo conoscere la sua reazione se ero voltato di spalle?
In realtà aveva registrato la richiesta e mi accontentò per la prima e ultima volta. Al culmine dell’amplesso lo tirò fuori e appoggiò la cappella sulla mia natica destra. Quando venne sentii lo sperma che si spandeva sul gluteo.
Appena terminò subito mi alzai gli slip, volevo conservare quel flusso il più a lungo possibile. Quella volta non raggiunsi l’orgasmo. Mi aveva distratto l’attesa di sentire il suo liquido scorrere sulla mia pelle. Ma l’effetto fu gradevole e compensò il mancato piacere.
Non saprei spiegare perché gli avessi chiesto il sacrificio di interrompere il coito. Magari, a livello inconscio, per sentirmi donna anche solo un attimo, che fu gradito, ma solo da me.
Quella che era stata una semplice, anche se depravata, richiesta l’avrà elaborata in una forma perversa. Credo che non abbia tollerato il mio prendere un’iniziativa e da lì sia nata l’esigenza di punirmi.
Dopo pochi giorni mi riportò nello stesso posto e mise in atto la sua vendetta. All’inizio seguì il solito schema e dopo avermi penetrato si mosse come al solito, poi cominciò a dare colpi sempre più forti.
Alla terza o quarta staffilata gli dissi che mi stava facendo male. Non sentivo dolore, al contrario, stavo godendo, ma credevo di inorgoglirlo. Forse mi avrebbe parlato questa volta, mi avrebbe detto qualcosa di carino, o di osceno. Per me era indifferente, purché parlasse.
Ma lui niente, anzi tornava indietro lento e poi un’altra spinta tremenda. Il mio culo dovette sopportare una decina di colpi violenti tutti in sequenza prima di essere lenito dalla sua sborra.
Meno male che sono anche masochista, pensai. In realtà ho solo un’altissima sopportazione al dolore. La natura però segue il suo corso, quando tornai a casa le mutandine erano piene di sangue.
Mi aveva sverginato, poco male, prima o poi doveva accadere. Sciacquai gli slip nella vasca del bagno. Quando notai che le macchie non andavano via li misi in una busta di plastica e scesi in strada. Quando gettai il sacchetto nel contenitore dei rifiuti provai un accenno di malinconia. Avrei voluto conservare ciò che, per me, avrebbe rappresentato un simpatico ricordo.
Proseguimmo nella nostra relazione per un anno ancora. Conducevamo una vita ordinaria intervallata da momenti di vizi.
In strada, o con gli amici, ci comportavamo in maniera normale. Non abbiamo mai dato adito a sospetti. Lui aveva anche la ragazza, io scambiavo qualche chiacchera, se la incontravo, con una compagna di classe. Ines. Elegante, carina e infatuata di me.
Ma io proprio non riuscivo ad andare oltre l’amicizia con lei. Ero certo di essere (femminiello?) gay e vivevo nell’attesa che si presentasse la condizione adatta in cui io e Francesco, soli, trovassimo il posto adatto per farci una scopata.
Situazione che si verificava spesso. Quando non riuscivamo a farlo in posti tranquilli ci vedevamo a casa mia. La prima volta lui avrebbe preferito il divano di velluto verde che risaltava nel salotto.
Mi distesi sul pavimento, per motivi che conoscevo solo io e che non intendevo spiegargli. Ma mentre mi penetrava, stranamente, chiese informazioni.
«Perché non sul divano? È comodissimo.»
«Infatti. Non sono abituato.»
Iniziò i suoi movimenti e nel solito intervallo di tempo inumidì le mie interiora. Quando ci alzammo, però, notò la chiazza biancastra che riluceva sopra le marmette scure. Commentò stupito.
«Ma sei venuto?»
«Perché ti meravigli?»
«Non credevo.»
«Francesco, tutti sborriamo, mica sei l’unico.»
«Sì, ma tu non hai usato la mano.»
«Non mi serve.»
«Piero, sei talmente frocio che ti basta un cazzo dentro per venire. Proprio come le donne.»
Non replicai, era troppo stronzo per meritare una risposta. Eppure non immaginavo quanto sapesse esserlo. Lo scoprii una sera, quando accadde qualcosa di inimmaginabile anche per una persona piena di fantasia come me.