8/125. UN NUOVO INCONTRO
Il calore del sole diminuiva pian piano di intensità.
Si avvicinavano le ore del crepuscolo e dal Palatino, dal lato della terrazza che affaccia verso la basilica di San Pietro, si poteva godere uno spettacolo affascinante: romantico per le coppiette che, abbracciate, si godevano quel panorama che faceva da cornice ai loro baci, alcuni appassionati altri sfuggevoli e timidi; invece, semplicemente straordinario per una persona che si affacciava da quel parapetto con duemila anni di ritardo.
Sabino, da quella posizione, guardava meravigliato una Roma completamente diversa da quella che lui ricordava.
Cercava di individuare qualche dettaglio che gli permettesse di orientarsi in quel dedalo di strade. Tuttavia la città che visitò tante volte da ragazzo, insieme a suo padre, quando lo accompagnava in alcuni suoi viaggi commerciali, non c’era più, o meglio, c’era, ma sepolta o nascosta da edifici completamente nuovi ed irriconoscibili.
Certo il concetto di ‘nuovo’ apparteneva esclusivamente alla memoria di Sabino.
Nessuno di quei passanti che ammirava la sua armatura o accidentalmente vi sbatteva contro, avrebbe definito quelle costruzioni ‘nuove’, ma per il soldato Sabino era diverso.
In un momento tutto il suo mondo era cambiato.
In un attimo era passato da una condizione di agonia, che lo vedeva giacere a terra con il corpo trafitto dalle frecce che i suoi nemici gli avevano scagliato addosso nel tentativo di arrestare la sua avanzata alla volta della conquista di Gerusalemme per ordine del generale Tito, ad una situazione completamente diversa.
Le sue ferite si erano dissolte ed il suo corpo era tornato pieno di energia e vigore, ma, insieme a quelle ferite, anche il mondo che conosceva era scomparso, ne restava solamente una silenziosa testimonianza, mentre nuove costruzioni e nuove popolazioni con diversi costumi avevano sostituito quella società che lui credeva non sarebbe mai decaduta.
Non c’era più vita ad animare quelle botteghe in cui, non ricordava neanche più quante volte, aveva udito mercanteggiare il padre per vendere la sua merce; non c’erano più devoti a porgere i loro voti nei templi di quello o quell’altro dio; non c’era più alcun patrizio o alcun plebeo a calpestare quelle polverose vie.
Il senato, un tempo punto di riferimento di un grande impero, era diventato solo un’eco di voci passate, le cui parole non avevano più il potere di cambiare la vita delle persone che ora si accalcavano curiose ad ammirare quell’ antico edificio ormai in rovina.
Una sensazione mai provata l'aveva accompagnato fin dal suo risveglio durante tutta quella giornata sconvolgente e, probabilmente, sarebbe stata al suo fianco ancora per molto tempo, come un peso posto sul cuore, che riempiva di malinconia ogni suo pensiero.
Se avesse avuto un amico con cui confidarsi, forse, avrebbe potuto provare a trovare la forza di strapparsi dal petto quel macigno, liberarsi dalla morsa che ingabbiava i suoi pensieri nella disperazione, così da sostituirli con la luce della speranza, ma nessuno era accanto a lui e, da solo, gli sembrò di soccombere per la seconda volta, ma questa volta non per mano dei soldati zeloti a Gerusalemme, ma per mezzo di un oscuro e più temibile avversario: il Tempo.
Nella sua condizione di viaggiatore temporale, non poteva non pensare a quanto futile potesse essere la vita di un uomo.
Intento ad accumulare ricchezze, espandere territori, ergere archi per celebrare la propria grandezza e costruire templi per ingraziarsi dèi immortali, forse non immaginava che tutti i suoi sforzi si sarebbero poi dissolti e sarebbero stati spazzati via dal vento e le stesse istituzioni che avrebbero dovuto garantire la sua grandezza sarebbero anche loro capitolate sotto l’implacabile forza del tempo.
Tutto dimenticato, tutto passato, anche quell’arco che tanto lo aveva confortato nelle prime ore di quella mattina, perché rappresentava il segno tangibile della sua esistenza di soldato e della vittoria che aveva portato alla conquista di Gerusalemme, grazie anche al suo sacrificio, ora sembrava poca cosa davanti allo sconfinato potere del tempo.
Agli occhi di Sabino, non era più simbolo di onore o di grandezza, ma più una lapide con inciso un disperato grido: ‘io c’ero, non dimenticatemi, anch’io ho vissuto’.
Gli studenti del maestro Cesare, in qualche modo, impedirono a Sabino di immergersi troppo nelle profondità dei suoi grigi pensieri che rischiavano di fargli perdere il lume della ragione.
Infatti, tutti loro, in un modo o nell'altro, incuriositi dalla sua persona, lo tennero occupato: le ragazze, con il loro chiacchiericcio di sottofondo a commentare e ammirare timide la sua bellezza adulta, ed i ragazzi attirati dalla sua armatura lucente, in particolare dal suo gladio e dal suo elmo.
Questo interesse gli permise di interagire piacevolmente con loro e di acquisire almeno le nozioni base necessarie per accusare, nel modo meno sconvolgente possibile, l’impatto di un balzo nel tempo di due millenni.
Va detto che nello stato d’animo in cui stava precipitando Sabino, non c’era nulla di meglio che poter attingere dalla spontaneità e dalla giovialità di un ragazzo per recuperare, se non proprio una visione ottimistica della situazione, almeno un punto di vista accettabile.
Certo, se quegli studenti avessero dovuto sopravvivere contando sulla loro conoscenza del latino, non sarebbero vissuti a lungo, ma a conti fatti, sicuramente più di lui, che se non avesse avuto la fortuna di incontrare quel gruppo di giovani e quello strano maestro, adesso chissà in che condizioni si sarebbe ritrovato.
Ma non voleva concentrarsi su ciò che di peggio sarebbe potuto accadere, avrebbe finito solo per indebolire il suo spirito; invece, aveva ancora bisogno di attingere dalla sua forza di volontà le energie necessarie per tentare di risolvere i suoi problemi, considerato che non poteva certo definirsi fuori pericolo.
La gita infatti era giunta al termine, ogni ragazzo sarebbe tornato, ovviamente, a casa sua, lasciandolo solo.
Certo non poteva rimanere lì. I guardiani di quel parco avevano annunciato più volte la chiusura dei cancelli e avevano invitato i turisti ad uscire. Così almeno gli aveva spiegato un ragazzo.
Turista: questa era una parola completamente nuova nel suono, ma il significato gli era ben noto, Sabino li avrebbe definiti visitatori.
Quello che gli sembrò strano era applicare quella definizione a sé stesso, a lui che fino al giorno prima era impiegato a difendere i territori sottomessi a quella città e a proteggerne gli abitanti.
Prima di salutare quel gruppo di ragazzi riuscì ad appropriarsi del dizionario di Derossi, che per quante volte lo avevano chiamato e preso in giro, anche lui, alla fine ne imparò il nome.
Seguì i ragazzi verso l’uscita e piano piano li vide disperdersi tra la folla.
Decise di seguire anche lui il flusso di persone, avventurandosi in quel mondo completamente nuovo e a lui sconosciuto, come un tronco che viene trasportato dalla corrente del fiume, ma non in modo placido, piuttosto come sbattuto qua e là a causa delle rapide tumultuose che agitavano il suo cuore.
Infatti, Sabino, non aveva la minima idea di come avrebbe potuto organizzarsi per quella notte, come avrebbe potuto procurarsi del cibo o difendersi dalla violenza che le notti romane, portavano con sé. Infatti, almeno nel suo tempo, Roma era tristemente nota per la pericolosità delle sue strade notturne.
L’ unico aiuto prezioso su cui poteva contare, nella circostanza in cui si trovava, consisteva in quel libricino che almeno gli avrebbe permesso di comunicare con qualcuno, anche se a stento.
Così, perso nei suoi ragionamenti e con un senso di disorientamento persistente, passò davanti, senza neanche accorgersene, ad un uomo con un berretto in mano che teneva capovolto.
Il vecchio mendicante, vedendo passare Sabino, non poté fare a meno di notare la sua armatura, come il resto delle persone che avevano l’occasione di imbattersi in lui, ma invece manifestare ammirazione, con una smorfia di disprezzo mormorò: «Alius stultus qui se Romanum simulat pro pecunia, nec nomen ducis novit cuius arcus nomen fert.(10)».
Per tutta la mattina ed il pomeriggio, Sabino era venuto a contatto con un mondo pieno di stranezze che non riusciva a comprendere, l’unica cosa che gli fu chiara da un certo punto in poi, era che in quel posto, lui era considerato il più strano di tutti.
Tuttavia, fino a quel momento le persone lo avevano ammirato affascinate, come se avesse la capacità di fargli assaporare l’esperienza di un mondo fantastico perso nel tempo ma che, una volta, era reale e che valeva la pena ricordare.
Per questo quei turisti si fermavano numerosi a contemplare ruderi che ritenevano preziosi, mentre per lui non erano di nessuna utilità, poiché non davano più rifugio, non vi si poteva più comprare, pregare o trovare giustizia.
Per tutta la giornata non si era mai sentito minacciato o insultato. Fu perciò colpito dall’udire quelle parole così sprezzanti e per di più nella sua lingua.
Aveva capito, infatti, che raramente avrebbe trovato qualcuno che in quel periodo storico avrebbe potuto parlare latino. Il caso gli aveva fatto incontrare quello strano maestro, ma come gli aveva spiegato, il latino ormai era una lingua morta e se mai fosse stato fortunato a trovare qualcuno che lo capisse, sarebbe invece stato impossibile imbattersi in qualcuno che gli avrebbe potuto rispondere.
Invece quel vecchio sudicio mendicante, non solo si era espresso usando il suo linguaggio, ma aveva osato anche insultarlo.
La prima cosa che fece Sabino fu voltarsi verso di lui ed istintivamente avvicinarsi con passo sicuro, puntando i suoi sfavillanti occhi verdi in quelli scuri e tetri dell’anziano, quasi a volerlo sfidare a ripetere ciò che aveva appena pronunciato, se ne avesse avuto il coraggio.
L’uomo, stupito dall’avvicinarsi di quel falso soldato, secondo la sua opinione, mutò il suo sguardo, che non eran più di disprezzo, ma di curiosità.
- ‘Cosa mai può volere da me questo pupazzo ambulante che si avvicina con questo cipiglio, come se avesse capito l'offesa che gli ho rivolto ’ - pensò il mendicante.
«Arcus ille erectus est in honorem Tito ducis, quem habuii honorem sequentis in proelium et pro quo vitam dedi(11) .», rispose Sabino, gonfiando il suo petto per far sì che, non solo le sue parole, ma anche il suo portamento mostrassero quanto grande erano state le sue gesta e per dimostrare al mendicante quanto si sbagliasse.
Il vecchio alzò un sopracciglio, lo scrutò da cima a fondo e poi improvvisamente scoppiò in una fragorosa risata rispondendo sempre in latino: «Non sei un semplice stupido, sei uno stupido che ha studiato! E sentiamo, quale sarebbe il nome e la storia di questo soldato che ha dato la vita per il generale Tito e che è qui davanti a me, invece di essere morto e sepolto duemila anni fa, ridotto ormai solo a cenere in una tomba?»
Sabino si sentì disorientato dalle parole di quel vecchio, non capiva se scherzasse o dicesse sul serio.
Da quando aveva aperto gli occhi avrebbe voluto poter raccontare la sua storia a qualcuno che, mosso a compassione per la sua situazione disgraziata, gli desse aiuto, ma si era imposto di non cedere a quella debolezza emotiva, rischiando di essere preso per pazzo e finire così in qualche guaio.
Non voleva quindi fidarsi ingenuamente, tuttavia neanche rischiare di perdere quell’occasione così propizia di poter conversare con qualcuno nella sua lingua e ottenere quelle risposte alle sue domande estremamente necessarie per la sua sopravvivenza, quindi tentò di sondare il terreno dicendo: «Visne cognoscere historiam meam?(12) ».
Il vecchio, non si aspettava che quel ragazzo continuasse a dargli corda. Lo prese come una sfida e decise di stare al gioco, con l’intento di scoprire quando si sarebbe arreso nel portare avanti quella farsa, perciò gli rispose, sempre in latino: «Se mi dai da bere e da mangiare, non solo ascolterò la tua storia ma risponderò anche a tutte le tue domande!», ed una luce di pura soddisfazione illuminò i suoi profondi occhi scuri.
Nella sua testa, quel mendicante, si sentiva come se stesse giocando una partita a scacchi e avesse appena mosso la torre in una posizione che gli consentisse di fare scacco.
Sabino, udendo quelle parole, cambiò atteggiamento. Un bagliore di speranza lo animò, facendogli dimenticare l’orgoglio ferito dall’offesa di essere stato considerato uno stupido.
Vedeva davanti a sé l’opportunità di sciogliere quei misteri che avvolgevano quel mondo sconosciuto e un aiuto per superare quella notte che si avvicinava pericolosamente.
Con lo sguardo di un bambino che cerca di ottenere il favore del suo compagno regalandogli il suo gioco preferito, prese la sacchetta di cuoio, in cui aveva riposto i soldi che i turisti gli avevano donato in cambio della foto con lui, e gliela mostrò dicendo: «Satis pecuniae est?(13)».
Rivolse al mendicante, senza accorgersene, uno sguardo ansioso, temendo che quel denaro non bastasse a comprare il suo aiuto e la sua compagnia. Il volto di Sabino assunse un’espressione così timorosa e preoccupata che il vecchio cambiò improvvisamente atteggiamento.
Era evidente che non aveva davanti a sé qualche buon tempone figlio di papà che si divertiva a fare teatro per strada così da attirare l’attenzione dei passanti e nutrire la sua superbia, bensì un uomo che stava vivendo un qualche disagio psicologico, di cui lui non comprendeva la natura, ma del quale sicuramente non poteva farsi beffe.
Così il tono dell’uomo passò da sprezzante ed ironico a comprensivo e paterno e chiese: «Come ti chiami ragazzo e da dove vieni?».
Sabino non capì neanche una parola e disse: «Non intellego quid dixisti, non sum hinc(14)».
Il mendicante, gli lanciò uno sguardo severo, come per intimargli di smetterla con quel gioco, perché non c’era più da scherzare, e rimase ad osservarlo in silenzio.
Sabino, nonostante avesse combattuto con eroico coraggio decine di battaglie, davanti a quello sguardo indagatore si sentì venire meno pensando di stare per perdere un’opportunità, se non unica, almeno estremamente rara, per poter sopravvivere a quel mondo sconosciuto.
Evidentemente gli occhi brillanti e verdi e la semplicità legata alla giovinezza di quel ragazzo fecero trasparire tutte le sue ansie e tutte le sue paure, tanto che il vecchio provò un’immensa compassione e decise di assecondare quella situazione ancora una volta ripetendo, questa volta in latino: «Quod nomen tibi est et unde venistis?(15)».