

Capitolo 2: Al locale - Lisa.
9 Settembre
«Aliena!»
esclamo entrando in casa.
Alice sbuca dalla porta della cucina con in mano una tazza di tè.
«Quando la smetterai di chiamarmi così?»
dice sedendosi sul divano, soffiando sulla tazza fumante.
«Non lamentarti. Lo so che ti piace, e poi ti si addice proprio»
replico.
«Ah sì?» fa lei divertita «E perché mai?»
lascio cadere a terra la borsa e mi vado a sedere accanto a lei.
«Perché non sei di questa terra, non sei umana»
«Potrei anche essere un angelo, quindi»
«Nah. Noi non crediamo a queste cose»
le rispondo.
«Lisa…»
«Aliena…»
Cia guardiamo, entrambe vorremmo dire qualcosa, ma sappiamo che sarebbe una discussione che non porterebbe a nulla. Nessuna delle due vuole seriamente parlare. Lei vorrebbe ascoltarmi, ma io ho smesso di avere cose da dire troppo tempo fa.
«Com’è andata oggi?»
mi chiede.
Questa sua domanda mi lascia sempre un po’ perplessa, sa perfettamente che non ho mai nulla da dire, mi guardo bene dal mettermi in situazioni che richiedano di essere poi condivise.
Non è il mio ruolo quello di farmi coinvolgere negli eventi della vita. Io sono una foglia d’autunno sulla superficie di un fiume placido. Esisto, sì, ma non interagisco col mondo intorno. Non increspo l’acqua, non ne decido il fluire. Sono lì, e basta.
Ali continua a guardarmi, starà in silenzio finché non le risponderò.
Mi stringo quindi nelle spalle e rispondo
«Normale, come al solito…»
«Nessun incontro speciale?»
«Faccio la commessa in un negozietto in centro, che incontri speciali dovrei fare?»
«Non so, magari il tizio dell’altra volta»
Mi risponde con un tono attento, quasi temesse di ferirsi con le parole che dice.
È una nuova inflessione che credo di non averle mai sentito prima. Eppure ci conosciamo da tanto, troppo tempo. Mi acciglio.
«Il deficiente che ha provato ad abbordarmi il mese scorso? Ringraziando il cielo non si è fatto più vivo»
Non so perché mi stia parlando di lui, ora. Non mi pare di averle riferito dell’incontro con particolare entusiasmo. Ed è passato un mese. Perché tira fuori questo tizio? Soprattutto, perché ancora me ne ricordo io?
«Lisa, ascolta…»
Il tono è cambiato di nuovo, sfortunatamente, questo lo conosco fin troppo bene.
So cosa vuole dirmi, so dove vuole andare a parare.
Le voglio bene, ma sono stanca. L’amore può togliere il fiato, soffocare, e con lei mi sento spesso in apnea. Se continua così potrebbe cambiare la sostanza di ciò che sono, e da foglia diverrei pietra, affondando in quel fiume che mi sforzo di vivere.
Così, prima di farmi uscire di bocca qualcosa di spiacevole, sollevo una mano e blocco quello che sarebbe stato l’ennesimo suo tentativo di salvarmi. Dovrebbe sapere che i morti non si salvano.
«Ali, ti prego, facciamo così, vado a farmi una doccia e se sono in vena, stasera usciamo. Andiamo dove ti pare, a conoscere chi ti pare! Giuro di portarmi addirittura a casa qualcuno, se abbastanza decente»
«Io non volevo»
«A-ah!» la fermo «Faremo così e basta»
Le do un bacio sulla guancia e corro al piano di sopra, nella mia stanza inghiottita dal buio.
Mi chiudo la porta alle spalle ed inizio a spogliarmi. Mi fiondo in bagno, apro l’acqua nella doccia e senza aspettare che si scaldi, mi metto sotto il getto gelido.
Chiudo gli occhi e sparisco nel vuoto dei miei pensieri.
Nessun volto, nessun sorriso, nessun luogo. È tutto nero. Nessuna voce riecheggia nella mia testa, solo il rumore dell’acqua scrosciante.
Sospiro e mi godo il resto della doccia lavando via l’odore del centro.
Quando finisco mi avvolgo nell’accappatoio e vado a stendermi sul letto con i capelli ancora bagnati. So già che dopo mi darà fastidio il cuscino umido, ma non ho voglia di sistemarmi ora.
Allungo una mano di lato e cerco l’interruttore dell’abat-jour. La luce fioca mi ferisce leggermente gli occhi.
Il soffitto rosso incombe sopra di me, quello, invece, mi dilania.
Resisto senza distogliere lo sguardo per 5 minuti. Uno più del solito e quattro in meno rispetto al mio record personale.
Sospiro. Abbasso le palpebre sugli occhi brucianti. Cerco di capire se sono stanca, ma non lo sono. Ho energia per lavorare altre otto ore.
Mi chiedo se sia il caso di mentire ad Ali, dirle che sono distrutta. Mi crederebbe, senza dubbio.
Ma perché le ho promesso che saremmo uscite? Che mi è passato per la testa?
Riapro gli occhi e vado a controllare la situazione di sotto.
Alice sta preparando da mangiare, alza lo sguardo dalla ciotola di insalata e mi sorride.
«Stai bene?»
mi chiede.
Ed eccola lì, la bugia più tenera di sempre, la menzogna che amo di più al mondo, la mia Alice.
La sua pelle d’ebano contrasta con i colori chiari della stanza, le sue labbra carnose si increspano leggermente, quasi a voler combatte lo sforzo disumano di restare immobili in un sorriso.
Ed i suoi occhi languidi, sempre sull’orlo di un pianto, mi fissano, pronti a sentirsi dire un nuovo no.
«Benissimo» le rispondo «Per stasera»
Il sorriso le si incrina, si prepara al no.
Ogni fibra del mio essere è pronto a urlarlo, ma stasera non ci riesco a fregarmene del suo dispiacere.
«Hai in mente qualche locale?»
mi sforzo di chiederle.
La sorpresa sul suo viso è evidente. Sento un calore liquido alla bocca dello stomaco vedendo le sue labbra fiorire in un nuovo sorriso, spontaneo, sorpreso, emozionato, vero.
Con una fitta di dolore che mi spacca il petto, mi torna in mente l’ultima volta che mi ha sorriso così.
È stato tanto tempo fa, io e lei eravamo persone diverse. Io e lei, non eravamo ancora morte.
«Lisa, non… tu non sei costretta a»
farfuglia.
«Lo so, ma ne ho voglia»
la interrompo, mentendo.
Preferirei tagliarmi una mano, un piede e tutte e due gli orecchi, piuttosto. Ma devo concludere questa conversazione al più presto, devo tornare in camera, allontanarmi da qui.
«O-ok!» dice contenta «Andiamo al Morrison, ti va?»
Morrison. Un altro pezzetto di una vita finita.
Sollevo le sopracciglia.
«Quella bettola è ancora aperta?»
chiedo.
Lei ride di nuovo, e la fitta al petto inizia a bruciare.
«Ha cambiato gestione da anni, ed è molto diverso dal baretto in cui ci devastavamo al primo anno di università»
mi comunica.
Ouch. Non credevo che un cadavere potesse sentire tutto questo dolore.
Deglutisco e camuffo il colpo con un sorriso falsissimo, non come quello che non ne vuole sapere di appassire, sul viso di lei.
«Bene, Morrison sia!» dico con finto entusiasmo «Ora vado ad asciugarmi i capelli e a scegliere i vestiti»
Mi giro quasi senza più fiato. La lascio in cucina e torno spedita in camera.
Mi porto una mano sul petto, il cuore martella forte. Lo sento scalpitare, graffiare la sua via verso l’esterno. Schiaccio il palmo più forte che posso, quasi a volerlo afferrare per stringerlo, stritolarlo, farlo smettere di essere così attivo. Faccio dei gran respiri e provo a calmarmi. Chiudo gli occhi e provo a sparire di nuovo ma non ci riesco. Le ginocchia si stanno sciogliendo, l’aria intorno si è fatta sottile ed io non riesco a respirarla.
Vorrei tornare giù e rimangiarmi la promessa, lei capirebbe.
Ma le mie gambe non si muovono, sprofondano nel pavimento. Il sorriso di Ali torna a schiantarsi nella mia testa, germoglia e sboccia e comincia a ramificarsi dentro di me.
Sto esagerando, sto dando troppa corda ad un evento piccolo. Non mi serve, non devo immagazzinarlo. Devo solo lasciarlo andare. Faccio dei respiri profondi, mi concentro sul suono del mio fiato corso. Boccata dopo boccata riesco finalmente a calmarmi.
Appena il pavimento smette di ondeggiare, mi trascino in bagno e tiro fuori il phon.
Mi asciugo i capelli fissando lo specchio, ma non mi vedo.
È da tempo oramai che la mia immagine riflessa è solo un agglomerato di colori sbiaditi e contorni confusi. Sapere che non esisto nemmeno per lo specchio mi rasserena definitivamente.
Dopo, però, chiederò ad Ali di truccarmi, altrimenti rischio di uscire fuori conciata come un quadro di Picasso.
Finto di asciugare i capelli, mi infilo una tuta e vado giù a mangiare.
Alice mi racconta della sua giornata, fingo di ascoltarla rapita. Niente di quello che mi sta dicendo attecchisce in me. Le nozioni scivolano via dalla mia testa. Le tengo dentro il tanto che basta per rispondere, se dovesse essercene bisogno, ma poi, via, non ci sono più.
Esattamente come il sorriso di Alice, prima.
Domani non ricorderò più niente della sua splendida giornata produttiva con i bambini dell’asilo in cui lavora, non avrò memoria della piccola Lilian che le disegna una rosa o di Brian che le chiede se un giorno potrà essere la sua fidanzata.
No, domani la mia testa sarà vuota, settata. Pronta ad affrontare una nuova giornata.
Finito di cenare torno in camera per scegliere i vestiti.
Opto per una gonna di jeans, una t-shirt gialla e gli stivaletti. Non so se sia una mise adatta, ma dubito di poter fare di meglio. Generalmente indosso o la divisa del lavoro, o la tuta di casa, o il pigiama.
Mentre chiudo la cerniera dello stivale, Alice si materializza nella cornice dalla porta di camera mia. È stupenda nel suo vestitino verde smeraldo, con la gonna plissettata. I suoi riccioli neri sono raccolti in uno chignon disordinato ed il trucco è leggero.
Le chiedo di occuparsi della mia faccia e lei lo fa felice.
Constato con sollievo che nessun nuovo fiore sboccia sul suo volto mentre mi trucca. Ma i suoi occhi sono pieni di aspettative e paura. Sa che all’ultimo secondo potrei cambiare idea. L’ho già cambiata, ma non riesco a dirglielo.
È ora di uscire. Siamo entrambe pronte e fuori di casa, noto dalle sue spalle che si è rilassata un po’. Se salgo in macchina è fatta, sarà riuscita a portarmi fuori, a ributtarmi nella vita, a liberarmi dal mio purgatorio. Ma io non sto nel purgatorio. La mia anima non è in attesa di sapere che fine farà, è già bella che andata.
Distolgo lo sguardo, magari troverò il coraggio di fermarmi. Camminiamo a passo lento verso la macchina, entrambe siamo in bilico su un filo invisibile. Sento la sua mano avvicinarsi alla mia, faccio finta di controllare qualcosa nella borsa.
La serata è umida e l’odore dell’aria è un misto tra cemento e gelsomino.
Ce ne sono diversi cespugli in zona, riempiono l’aria con il loro profumo dolciastro e fresco.
Ali apre la macchina ed il click delle aperture automatiche mi spaccano la testa. Le do un ultimo sguardo, ma i suoi occhi non sono su di me. Mi sta concedendo di cambiare idea. Anche ora, con un piede già in macchina, lei è pronta a tornare indietro.
Torno a soffocare di questo suo amore, senza nemmeno accorgermene, mi trovo seduta sul sedile.
Ali infila le chiavi nel quadro e subito parte la musica della radio, alza un po’ il volume, sa che non parlerò, sa che passerò il tempo aggrappata allo sportello, combattendo l’istinto di lanciarmi fuori dall’auto in corsa.
Accende il motore e partiamo, la mia mano si serra sulla plastica dura della maniglia.
Osservo le luci della città scorrere fuori dal finestrino, la movida locale che si risveglia per il fine settimana, i volti delle persone in preda all’euforia del sabato sera, gli occhi vivi e pieni di speranze. Non so quanto duri il viaggio, ma all’improvviso Alice parcheggia e spegne la radio. Mi giro a guardarla e trovo subito i suoi occhi spalancati su di me.
«Sei sicura?»
chiede.
Piangerei se fossi ancora in grado di farlo.
Anche ora è pronta a tornare a casa se le dicessi la verità, e non mi giudicherebbe, non proverebbe nemmeno a farmi cambiare idea.
Le sorrido, e questa volta non è finto, ma neanche del tutto vero.
«Sì, andiamo a fare un po’ di baldoria»
Mi stringe velocemente la mano e scende. Resto sola nell’abitacolo per qualche secondo, faccio un gran respiro e la seguo.
Ci mettiamo poco ad arrivare al locale, ma io non bado al percorso, sono concentrata sulla porta di metallo dell’entrata.
Devo tenermi ancorata a qualcosa o volerò via, lascerò Ali da sola con il mio corpo, un involucro vuoto da trascinarsi appresso. Ed oggi, non so perché, non riesco proprio a farle alcun male.
Un uomo grosso e con l’aria truce ci chiede i documenti, con mano tremante tiro fuori il mio.
Sembro una che ha qualcosa da nascondere, per fortuna il tizio non ci fa caso, nemmeno ci sta guardando. Entriamo.
Ci metto un attimo ad abituarmi alle luci soffuse dell’ingresso.
Del vecchio locale con i tavoli in legno e le pareti verde pisello, non è rimasto niente.
Tutto è nero e lucido, la musica è alta ma non fastidiosa, e dove prima c’era una piccola pista da ballo, ora c’è una piattaforma rialzata con il pavimento illuminato.
Il posto è gremito di gente e l’allegria riempie l’aria quasi fosse un profumo scadente.
Ali mi prende per mano e si avvicina al mio orecchio.
«Te lo avevo detto che è cambiato!»
Continuo a guardarmi intorno intontita.
«Già»
Mentre i miei occhi guizzano isterici in giro, lei mi trascina verso un tavolo miracolosamente libero e mi fa sedere.
«Vado a prendere qualcosa da bere» urla sopra alla musica «Tu che vuoi?»
«Ahm, quello che prendi tu»
«Torno subito!»
E si dirige verso il bancone. La guardo sparire tra la folla e cerco di tenere sotto controllo il panico.
Lei è così forte, come fa? Come fa a muoversi in mezzo a quella gente dopo quello che le hanno fatto? Come riesce ad avere questa voglia di reagire?
Provo a rilassarmi, mi guardo intorno, osservo i cambiamenti del locale, i clienti, i vestiti delle persone. Improvvisamente mi sento fuori posto. Tutti indossano abiti scintillanti, tacchi alti e accessori alla moda. Io sembro pronta per andare a fare la spesa.
“Però sono truccata bene” penso.

