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Prologo

In ospedale

Sto sfrecciando a più non posso con questa dannata macchina che non vuole superare i duecentoventi chilometri orari. Devo raggiungere l’ospedale al più presto. Il mio cellulare non smette di squillare, ma non ho la benché minima voglia di rispondere, mi avevano consigliato, quasi costretto, di prendere l’autista con la scorta o di arrivarci con l’elicottero, ma in questo momento non riesco a ragionare. Sono troppo agitato per farlo nel mondo corretto. So che sto rischiando la vita, ma questo non è niente. I pensieri mi offuscano la vista e la ragione.

«Pronto» tuono al telefono. Sono stufo, mi distrae dalla guida questo continuo squillare.

«Dove sei?» chiede mia moglie. «Sono passata in ufficio e non ci sei, la segretaria mi ha detto che sei dovuto partire.» Sembra preoccupata, ma so benissimo che non lo è. A lei sono sempre interessati solo i soldi e il potere. Come a suo padre e a suo fratello.

«Sì, ho una riunione urgente a… Birmingham» la informo. Non posso assolutamente dirle dove sto andando. Mi creerebbe solo dei problemi.

«Cosa? Hai preso la scorta? Quando ritorni? Sai che dovevamo andare...»

«Lo so, lo so ma...» Devo inventare subito una scusa, «Cerco di fare prima possibile. È un affare urgente, non posso rimandare. Non c'è bisogno di scomodare la scorta.» Almeno spero.

«Ok, caro, chiamami appena ti liberi.» E riaggancia giusto in tempo.

Senza pensarci, parcheggio nel primo posto libero vicino all'entrata. Non m’interessa se prenderò una multa o se la mia auto verrà rimossa, devo correre. Sì, ma dove? Dove devo andare? A che piano? A chi devo chiedere?

«Eccoti» sento una voce familiare. Mi volto a cercare chi ha parlato ed eccolo. «Sei solo? E la scorta?»

«Dov’è? Come sta? È viva?»

«Calmati. Vieni con me. Ti porto da lei» dice cingendomi le spalle. «Stai rischiando grosso. Speriamo che non ti riconoscano.»

Che vuoi che me ne freghi.

Percorriamo un corridoio fin troppo lungo per i miei gusti. Troppa attesa. Troppa strada prima di poter constatare che stia bene sul serio. Le mani mi sudano, le ginocchia tremano e il cuore sta battendo all’impazzata al solo pensiero di vederla. Per la prima volta mi sto sentendo inadeguato.

Guardo fisso davanti a me, deglutisco il magone, o almeno ci provo. Quando le porte si aprono e il mio amico avanza, io resto immobile. Non riesco a muovermi, non riesco a far un semplice ed elementare passo verso l’ennesimo corridoio. Mi sento morire.

«Ehi, andiamo» mi richiama lui.

Sento gli occhi lucidi e il cuore non vuole saperne di rallentare. Mi sistemo la giacca e gongiungo le mani. Prendo un respiro profondo che dovrebbe calmarmi e lo seguo. Questo è il rito che compio per tranquillizzarmi prima di una riunione con i grandi capi di altre aziende. Ma sembra che questa volta non basti.

Duecento, duecentouno, duecentodue, Duecentonove, duecentodieci. Lui si ferma davanti a quest’ultima. Gira il volto verso di me e porta la mano alla maniglia. «Sei pronto?» sussurra. Fisso gli occhi nei suoi e mi domando come diavolo può pensare che io sia pronto a vedere in che condizioni è la mia piccola Dream. Annuisco con il capo mentre le mie dita torturano l’anello al mignolo. Sono agitato. Non so spiegarmi come sia possibile perché non mi è mai capitato. Con gli anni ho imparato a controllarmi, ma ora è tutto diverso. Si tratta della mia famiglia.

Lento, apre la porta ed entra. Mi guardo attorno e, chinando il capo, lo seguo cauto. Al centro della stanza, attaccata a strani macchinari, giace lei.

La tengono in vita? La stanno solo aiutando?

Le sue braccia sono fasciate. Il suo viso è irriconoscibile. Non ci posso credere.

Piccola mia, cosa ti è successo?

«C… come sta?» bisbiglio piano.

Ho paura di svegliarla. Ho paura di poterla traumatizzare se solo mi vedesse qui. Sono anni che non la incontro. Sono anni che non ci parliamo e forse nemmeno si ricorda di me.

«Il dottore dice che sta bene. Ma finché non si riprenderà non potrà accertare se ha riportato qualche lesione a livello cerebrale. Ha perso molto sangue e...»

«Voglio sapere tutto» dico guardandola con durezza. È come se lo pretendessi da lei e non dal mio amico. Non riesco ad avvicinarmi, non riesco ad accarezzarla, a darle ciò che le serve ora.

Ho paura di lei?

Impossibile.

«Devi sapere tutto. Dopo chiederemo al dottore che la segue. Ora goditi questi istanti, avvicinati e offrile tutto il tuo conforto. Ha bisogno di te.»

Muovo un passo verso di lei e mi si spezza il cuore sempre più.

L’ho ridotta io così. È colpa mia se è in queste condizioni. È per colpa di ciò che sono e di chi è lei se si trova qui. Non ho saputo proteggerla al meglio.

Massacrare così una ragazzina, ma come si può essere tanto meschini?

La mia mano tremolante sfiora il suo volto tumefatto. Inclino la testa e la guardo incredulo.

Chi ti ha ridotta così? Dove sono i tuoi occhi azzurri?

Dov'è il tuo sorriso raggiante che illumina ogni foto che mi facevo mandare?

«Che succede qui?» Una voce profonda risuona nella stanza.

Mi volto con estrema lentezza e vedo un uomo sulla quarantina, con il camice bianco, che ci fissa incredulo, fermo sulla porta. Scruta ogni minimo particolare.

«Tranquillo, possiamo fidarci» bisbiglia il mio amico. Se lui si fida di questo tizio, potrei farlo pure io. «Andreas, lui è…»

«Non ha importanza» dichiara il medico interrompendo le presentazioni con tono arrogante.

Che sfacciataggine.

Guardo l’uomo che mi sta scrutando in cagnesco.

Chiude a chiave la porta dietro di sé e infine avanza nella stanza senza smettere di fissarmi.

Vedo i suoi occhi soffermarsi sugli abbozzi dei miei tatuaggi che si intravedono oltre la mia giacca. Chi non noterebbe le lettere sulle mie nocche? Forse solo un cieco.

Stranamente non ci dà molta importanza, anche se so che mi ha riconosciuto, altrimenti non si sarebbe mai sognato di chiudere a chiave la porta.

Che diavolo ha in mente? Sa che posso ucciderlo in un secondo?

Distoglie lo sguardo, alla fine, per puntarlo sulla piccola Dream. «Sembrerebbe che abbia perso la memoria» dice sfogliando la cartellina nel più totale finto interesse.

Scuoto piano la testa. Non ci posso credere. Quanto sa lui di lei? Quanto gli importa di lei? «Non si ricorda ciò che le è successo. Di solito il cervello usa questa strategia per difendersi. Dimentica il trauma ed eventi correlati per...»

«C’è qualcosa che sai che non sia scritto? C’è qualcosa che sai senza leggerlo?»

«Ehi» mi richiama il mio amico. Lui è l’unico che può permettersi di farlo.

«Stammi bene a sentire, dottorino da quattro soldi. Posso farti licenziare quando diavolo voglio se solo mi girano i coglioni. Ora, dimmi come cazzo sta» ringhio guardandolo in quegli occhi scuri.

Lei è la mia priorità, anche se non sembra, quindi che veda bene di non prendermi in giro.

«Capisco. Allora…» Chiude la cartellina in modo tranquillo e la posa sul tavolino dietro di sé, ci si appoggia col sedere e incrocia le braccia. «La vedi quella sacca? Sta subendo l’ennesima trasfusione perché ha perso così tanto sangue che è viva per miracolo. Ha avuto delle crisi respiratorie gravi e altre non rilevanti, per quello è attaccata al respiratore, perché non si stanchi più del dovuto. È qui da circa due settimane e non si è svegliata fino a ieri notte. È rimasta vigile per tutta la giornata ma non ha riconosciuto nessuno nella stanza, nemmeno il fratello. Ora è sedata perché altrimenti potrebbe avere delle reazioni incontrollabili. Abbiamo ripreso ad alimentarla con la flebo perché ha rifiutato qualsiasi forma di cibo. È parecchio sottopeso per la sua età. Suo fratello è qui notte e giorno e, prima di ritornare in stanza per vedere come sta, l’ho lasciato al bar a bere l’ennesimo caffè e ad incolparsi di tutto questo solo perché faceva parte del Clan. Oltre al ragazzo e a lui» indica col capo il mio amico, «non si è visto nessun altro. Non so dirti di preciso come sta tua figlia perché non sono riuscito a visitarla da sveglia visto che, quando lo hanno fatto, non ero presente ma mi hanno riferito che si è staccata tutti i cavi e le flebo ed è scappata a nascondersi in bagno. Vuoi sapere altro? Forse vuoi che ti parli di ciò che nasconde sotto quelle bende?»

Si mostra spavaldo e la cosa mi irrita. Non voglio distrarmi. Voglio pensare a lei e basta. La guardo, la scruto in ogni suo più piccolo dettaglio per memorizzarlo. Giocherello con le sue dita ossute e mi soffermo sui suoi avambracci fasciati.

L’occhio mi cade sulle nocche arrossate.

«Ha subito violenza…» sussurra il mio amico.

Punto i miei occhi nei suoi e mi manca il respiro. Strizzo le palpebre dall’esasperazione.

Mi dispiace, piccola mia. Mi dispiace che tu stia pagando le conseguenze delle mie scelte e delle mie azioni. Non vedo via d’uscita tranne che…

«Fate in modo che non si ricordi di ciò che le è successo. Ditele... ditele che...»

«Nessuno sa esattamente come siano andate le cose. Suo fratello sostiene che, prima di tentare il suicidio, si è procurata tutte queste contusioni. La dinamica non è chiara» m’interrompe il dottore.

«Cosa? Sta scherzando? Come può credere una cosa del genere?» esclamo incredulo e poi guardo il mio amico. Annuisce come per darmi conferma. Inspiro lento.

«Pensaci tu. Fai tutto ciò che è in tuo potere per evitare che rientri nel Clan o che scoprano chi è. Cambiale il nome di registrazione, falla trasferire. Fai…»

«Sai che...» cerca di dire.

«Nella scuola superiore dei ragazzi ci sono i tuoi, vero? Anche Sem che è ancora lì è dei tuoi, quindi sarà al sicuro. Lui conosce bene i ragazzi e tutta la situazione. Informalo.» Questo è ciò che mi frulla in testa al momento. Quel ragazzo è un ottimo alleato. Non ho mai avuto problemi con lui. È con me da quando è entrato e non ha mai osato tradirmi.

«Sai che...»

«Sono serio. Non voglio che lei si avvicini più al Clan o che qualcuno si avvicini a lei, eccetto Sem o chiunque lui ritenga fidato. Sa cosa fare a riguardo e inoltre la conosce.» Alzo lo sguardo verso il mio amico e mi aspetto che si affretti a ubbidirmi.

Esita nel farlo, forse perché non siamo soli, ma io non ho tempo da perdere con la sua indecisione. «Chiamalo, ora.»

Sospirando, estrae il cellulare e telefona al ragazzo che risponde al primo squillo.

«Sem, devi aiutarmi.» I suoi sospiri mi danno sui nervi. «Si tratta di… Danielle.» Il mio cuore perde un battito. Non avrei mai voluto sentire queste parole. «Verrà a Birmingham e studierà nella tua scuola. Ho bisogno di te, della tua lealtà per tenerla d’occhio e trovare dei ragazzi che possano aiutarti in questo. Lei non deve accorgersi di nulla, non deve entrare e nemmeno sapere dell’esistenza del Clan.» Distoglie lo sguardo da me e corruga la fronte. «Sem, non si ricorderà di te.» Il sorriso sul suo volto si fa più ampio, segno che il ragazzo ha accettato l’incarico. «Perfetto. Pretendo una lista dei membri fidati che ti daranno una mano e un rapporto giornaliero della situazione.» Mi chino su mia figlia, lasciandole un bacio sulla fronte. «Ha accettato senza problemi.»

«Ti proteggerò. Anche se non sarò con te, io ci sarò sempre. Non portarmi rancore se ti tratterò male o cercherò di allontanarti da me. Lo faccio per te. Sei un'erede ma non sei pronta per il mio mondo e il mio mondo non è pronto a te» le sussurro.

Mi alzo e mi volto verso l'uomo con il camice. Ho da dire due paroline anche a lui. «Non le deve succedere nulla, altrimenti ti farò dimenticare come si cammina. Per le spese mediche, rivolgiti a lui.

Pagherò qualsiasi cosa e non baderò a spese...»

«Ehi...» s’intromette il mio amico.

«Che abbia le migliori cure che questo maledetto ospedale è in grado di offrire. Seguitela in tutto e per tutto senza che se ne accorga. Non so, diventa il suo medico di fiducia ma inventati qualsiasi cosa ti venga in mente per tenerla d’occhio...»

«Provvederemo a riguardo. Non ti preoccupare. Il tuo amico ti dirà tutto una volta che ti sarai calmato. Ora, se non vuoi incontrare la furia omicida di tuo figlio, ti conviene andare. Io non ne farò parola.»

Questa improvvisa lealtà del dottore mi stupisce e mi rassicura. «Non illuderti, solo lei ha la mia lealtà.» Indica la ragazza. «Tu no, perché tu sapevi ma non hai fatto nulla per evitare che accadesse.»

Distolgo lo sguardo, senza capire le sue parole. Lentamente dirigo gli occhi verso il mio amico e corrugo la fronte.

«Lui è il dottor Breenly. È il padre dell’altra ragazza...» Scatto a fissarlo incredulo. Una lacrima mi riga la guancia mostrandomi debole. Chino la testa e mi torturo l'interno delle guance. Sono a conoscenza di ciò che è accaduto a sua figlia ma nulla toglie che su questo letto ci sia la mia.

«Sono in debito con te» bisbiglio con il magone in gola. «Chiedi qualunque cosa e io...»

«Già il fatto che tu lo sia mi appaga.» Non lo guardo, evito i suoi occhi e non gli stringo la mano per siglare il patto, ma spero comunque che non cambi idea. «Ora ti conviene andare.» Annuisco e, senza pensarci, esco da questa stanza fin troppo opprimente. La mia piccola è su quel letto e l'unico che le sta accanto è suo fratello.

Nemmeno Annie si scomoda a vedere come sta mia figlia. Diavolo di una donna, ha abbandonato il mio scricciolo alle cure dei nostri figli che sono poco più che adolescenti. Non so che le sia preso. I patti erano questi. Forse è troppo occupata a trastullarsi con il suo fidanzato.

Percorro il corridoio fino all’ascensore, dove un gruppo di persone sta parlando, e attendo che quelle porte di lamiera si aprano. Ho giusto il tempo di sospirare che dall’ascensore a fianco esce qualcuno. Un ragazzo dai corti capelli biondi con lo sguardo perso e l’aspetto trasandato. In mano tiene un bicchierone di caffè. Lo fisso ipnotizzato. Lui non si accorge di me e forse è meglio così. Sospiro ancora ed entro in ascensore, rassegnato che l’ultima immagine dei miei figli sia quella che ho appena visto. Riapro gli occhi e lo vedo voltarsi e puntare il suo sguardo interrogativo nella mia direzione. Una signora mi si mette davanti, bloccandogli la visuale e impedendogli di riconoscermi.

Credimi, figliolo, è meglio così.

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