Capitolo 5
"Ava".
"Ava".
Saltai in piedi e mi misi una mano sul cuore. Strofinandomi gli occhi, Blaze era inginocchiato al lato del letto.
"Blaze, che ore sono?". Sbadigliai.
"Ho bisogno del tuo aiuto, tesoro". Disse alzandosi in piedi.
Scivolando giù dal letto mi accorsi che non indossavo più solo un asciugamano, ma una maglietta e un paio di boxer. Mi ha vestito lui? Sentendo il rossore impadronirsi del mio viso, feci un respiro profondo prima di seguirlo fuori.
"Devi trovare un modo per fermare l'emorragia. Cazzo".
Che diavolo stava succedendo?
Mentre mi dirigevo verso il soggiorno, mi fermai quando tre paia di occhi si posarono su di me. Non era una situazione imbarazzante. Tutti gli uomini erano vestiti in pelle e sapevo che appartenevano tutti all'MC.
"Chi cazzo è quello?".
"Non porti mai a casa le tue puttane".
"Dannazione".
Beh, non era affatto imbarazzante. Tutti i ragazzi avevano commentato, tranne quello che era coperto di sangue.
Era almeno cosciente?
"Blaze, che succede?". Chiesi facendo qualche passo in più verso il soggiorno.
"Gli hanno sparato". Blaze sospirò passandosi una mano tra i capelli.
"Smettila di raccontare queste stronzate alla tua puttana. Non ha bisogno di saperlo".
Questo è quanto. Quante volte mi avevano dato della puttana da quando ero arrivata qui, ero troppo stanca per questo.
Lo fulminai con lo sguardo e misi le mani sui fianchi: "Non sono una puttana e non mi piace che tu mi chiami così". Sbadigliando mi avvicinai al ragazzo che sanguinava: "Sembra che gli abbiano sparato al petto". Borbottai più che altro tra me e me.
"Puttana, con chi credi di parlare?". Ringhiò, avvicinandosi a me, ma fu fermato da Blaze che lo spinse dall'altra parte della stanza.
"Non andare lì". Si girò di scatto guardandomi dritto negli occhi. "No, a meno che tu non voglia che il Presidente ti pianti una pallottola in testa". Blaze ringhiò e si mise al mio fianco.
"Oh, quindi non è la tua puttana ma è quella di Franko, perché cazzo è qui?". Ringhiò.
Chi, in nome degli dei, era questo tizio?
Arricciando il naso, lo guardai con disgusto. "Franko è mio padre, idiota. Ora stai zitto e renditi utile".
Guardare il colore del suo viso era divertente, ma se il povero bastardo sul divano continuava a sanguinare non ero sicuro che se la sarebbe cavata.
"Non se ne parla, cazzo".
"Come si chiama Blaze?". Chiesi rapidamente controllando il polso, sì, respirava ancora.
"Tommy". Blaze grugnì facendomi guardare. Perché mi guardava male?
Tirandogli su la maglietta, sospirai di sollievo: "Vai a prendermi un asciugamano, per favore". Era una ferita superficiale. Niente di grave, Tommy era solo un'emorragia. "Mi serve dell'antisettico e del filo".
"Sta bene?". Chiese l'idiota di prima.
"Sta bene, è solo una ferita superficiale, niente di grave. Una volta pulita la ferita e ricucita sarà come nuovo. Potrebbe volerci un po' prima che si svegli".
....................
"Grazie tesoro". Tommy mi sorrise da dove giaceva. Mi ricordavo di lui da tanti anni fa.
"Non farti sparare di nuovo". Lo stuzzicai
I ragazzi erano davvero a posto. Jared si era scusato per avermi dato della puttana, ma credo che avesse paura che lo dicessi a mio padre. Tank e Cruz erano i due silenziosi che non dicevano molto.
"Come facevi a sapere cosa fare?". Chiese Jared mentre beveva la sua birra.
"Ava è un medico, ragazzi, e potrebbe essere una vera risorsa per il club". Blaze abbaiò, aspirando a lungo la sua sigaretta.
"No". Lo fulminai con lo sguardo. Non volevo fare il medico ogni volta che uno di quegli idioti si faceva male.
"Oh, giusto, non vuoi che nessuno lo scopra". Sorrise.
Perché si comportava così? Avevo appena aiutato uno dei suoi fratelli e lui si comportava come un completo stronzo.
"Vaffanculo". Mormorai alzandomi dalla sedia e tornando in camera sua. Dovevo cambiarmi e mettermi in viaggio. Erano quasi le cinque del mattino e se me ne fossi andato ora avrei sperato di non metterci tanto ad arrivare a casa.
Sbattendo la porta della camera da letto, presi i miei vestiti dal fondo del letto. Mi spogliai dei vestiti di Blazes e indossai i miei. Proprio mentre mi infilavo le scarpe bussarono alla porta prima che Blaze entrasse.
"Cosa?". Chiesi, non essendo proprio dell'umore giusto per affrontare la sua bocca da saputello.
"Dove stai andando?".
"A casa, è quasi giorno, non devi più farmi da babysitter". Dissi infilandomi la giacca.
"Tesoro, io...".
"Non farlo, tesoro" sibilai "Portami solo alla mia dannata macchina, così posso andarmene da questo buco infernale".
"No". Mi guardò afferrandomi per le braccia e tirandomi verso di lui. "Non puoi guidare fino a casa finché non te lo dico io".
"Lasciami andare". Dissi a denti stretti: "Non mi possiedi, mi conosci a malapena, quindi per favore toglimi le mani di dosso".
Era un'altra cosa. Il suo atteggiamento caldo e freddo mi confondeva a morte. Non dovrei nemmeno essere qui e ora non mi lascia andare via.
"Pensi di essere qualcosa di speciale perché sei un medico. Non sei altro che una puttana motociclista che è tornata a casa. Pensi che nessuno possa farti del male per via di chi è tuo padre. Tesoro, a tuo padre non importa di nessuno se non del suo club...".
Sentii il bruciore prima di rendermi conto di ciò che avevo fatto. Il mio respiro era più difficile e le mie mani tremavano. "Stai lontano da me". Gracchiai sentendo le mie emozioni prendere il sopravvento. Stava dicendo la verità. A mio padre interessava solo l'MC. "Non credo di essere qualcosa di speciale, so da dove vengo".
Passandogli davanti, presi la mia borsa e me ne andai di corsa. Poteva andare a farsi fottere. Chi si credeva di essere. Come poteva giudicarmi se non mi conosceva nemmeno. Non smisi di correre finché non fui piegata sul ciglio della strada a vomitare le mie budella.
Asciugandomi il lato della bocca, feci un respiro profondo e mi guardai intorno. Una cosa era certa: non avevo senso dell'orientamento e ora ero ufficialmente fottuta.
Tirai fuori il telefono e digitai il numero di mia madre, mettendo il vivavoce in modo da poter guardare una mappa per vedere se mi avrebbe detto dove mi trovavo.
"Ava, tesoro, perché non rispondi alle mie chiamate. Dove sei, sono stata molto preoccupata". Lei stava quasi piangendo.
"Calmati mamma". Sospirai passandomi una mano tra i capelli: "Sto bene...".
"Dille di portare a casa quel suo culo magro". Una voce che conoscevo bene ruggì in sottofondo.
"Mamma dove sei?". Chiesi conoscendo già la risposta. Lei era qui, era con lui.
Dopo aver sentito qualche imprecazione, mi disse al telefono: "Porta subito qui il tuo culo, la mamma è a casa, dove deve stare. Non farmi venire a cercarti". E poi niente, aveva riattaccato.
Che diavolo, perché mia madre era qui, e soprattutto mia madre e mio padre erano nella stessa stanza e nessuno dei due aveva ancora cercato di uccidersi. Era un casino, mia madre odiava mio padre e sono quasi certa che lui odiasse lei.
Sentendo il rumore delle moto, mi cadde lo stomaco. Mi avrebbe fatto salire sulla sua moto. Conoscendo mio padre, avrebbe già informato Blaze di ciò che voleva.
Non desideravo altro che salire in macchina e tornare a casa, con o senza mia madre. Guardando le moto che passavano, una si fermò sul ciglio della strada proprio dove mi trovavo io.
Non c'era bisogno che dicesse nulla, lo sguardo che mi rivolgeva era sufficiente. Presi il casco che mi aveva offerto, lo indossai e salii dietro di lui.
.........................
Accostando alla sede del club notai che alcuni ragazzi erano appostati fuori. Una volta che ci fummo fermati, scesi spingendo il casco a Blaze. Non volevo stargli vicino, non dopo quello che aveva detto.
Infilando le mani in tasca, ignorai gli sguardi e attraversai la porta. Mia madre era in piedi al bar, con una tazza in mano e un paio di pantaloni del pigiama, e stava parlando con un paio di altre signore.
Una volta che mi vide, le signore vennero dimenticate e lei corse verso di me avvolgendomi con le braccia e abbracciandomi, ma quello che venne dopo mi sorprese. Mi diede uno schiaffo, forte.
La mia mano andò automaticamente alla guancia mentre la guardavo. Non mi aveva mai picchiata, nemmeno da bambina. Ero una donna adulta e lei mi aveva appena dato uno schiaffo davanti a tutti.
"Non farlo mai più, mi hai sentito. Mi hai fatto preoccupare da morire, Ava". Gridò incrociando le braccia sul petto e lanciandomi uno sguardo. Lo sguardo che diceva: "Discuti con me e te la vedrai ancora più brutta".
Non avevo intenzione di discutere con lei. Come ho detto prima, mia madre era una donna spaventosa e sapevo che non dovevo mettermi dalla parte del torto, ma colpirmi. Non aveva mai alzato le mani su di me. Il nostro rapporto non è mai stato violento.
"Ava Maria Mendez mi hai sentito?". Mi rimproverò.
Ero più che altro imbarazzata. Mi stava rimproverando come una bambina davanti a tutti e quando dico tutti intendo proprio tutti. Per quelle persone era ancora notte fonda, era ancora festa.
Stringendo i denti per non dire nulla di cui mi sarei pentita, decisi di voltarmi e di andarmene. Non avevo bisogno di ascoltarla. Sì, è mia madre, ma quella lì non era mia madre, non l'avrebbe mai fatto, non l'aveva mai fatto.
Una volta fuori mi aggrappai alla recinzione per riprendere fiato, non sapevo se piangere o arrabbiarmi. In piedi, sotto la luce, ho tirato fuori il mio telefono per controllare il mio viso, mi ha preso bene. Era ancora rossa e l'impronta della mano di mia madre era ancora visibile. Avrei sicuramente avuto un livido.
"Ti ha fatto bene".
Senza preoccuparmi di guardarlo, decisi di aprire un'applicazione sul mio telefono e di cercare un lavoro. Non volevo ascoltare qualsiasi cosa avesse da dire.
"Vieni dentro Ava. Ci sono molte persone che vogliono incontrarti. Vogliono conoscere la figlia dei presidenti".
Oh, quindi ora ero ricercata, era vero? Non volevo essere qui, figuriamoci entrare e incontrare persone che probabilmente non avrei più rivisto. Lo ignorai comunque, fingendo di essere più interessata al mio telefono.
"Ava". Si mosse di scatto.
"Cosa?". Mi voltai di scatto in modo da poterlo guardare.
"Entra subito".
"Che ne dici di lasciarmi in pace. Tu non mi vuoi qui e io non voglio stare qui. Quindi che ne dici di dimenticare che sono qui e di tornare a non avere una relazione. Che ne dici, vecchio mio?". Sogghignai guardandolo mentre mi fissava.
Non avevo idea di come mi fosse venuto il coraggio di dirglielo, ma tutto quello che era successo negli ultimi due giorni mi aveva incasinato la testa. Ero cambiata, prima non avrei detto "no" a un topo, ora stavo finalmente in piedi da sola. Mi difendevo da sola, come avrei dovuto fare tanto tempo fa.
"Bene, fai quello che cazzo vuoi". Scattò tornando dentro e sbattendosi la porta alle spalle.
"Stai bene, tesoro?".
Questa giornata poteva peggiorare. Diamine, non erano ancora le 7 del mattino. Qualcuno lassù ce l'aveva con me, ne ero certo. Perché non capiva l'antifona e non mi lasciava in pace?
"Fumo?". Mi offrì prima di accendere la sua.
Rifiutando la sua offerta mi sedetti con la testa tra le mani. Non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che mia madre fosse qui e di quello che aveva fatto.
Dovevo andarmene da qui, non volevo stare qui. Era l'errore più stupido che avessi mai fatto. In piedi mi asciugai le mani sui jeans. In questo momento non potevo andare da nessuna parte, non avevo la macchina e non avevo idea di dove fosse.
"Ava guarda prima". Iniziò a dire, ma lo interruppi.
"Lascia perdere. Non mi interessa, tra un paio d'ore me ne andrò e non mi vedrai mai più. Non mi interessa quello che pensi di me, che sia una stronza arrogante o una puttana motociclista, non me ne può fregare di meno, quindi risparmia il fiato". Mormorai proprio mentre mia madre usciva.
Ottimo, proprio quello di cui avevo bisogno.
"Ava, piccola, che succede?". Chiese guardando Blaze prima di tornare a guardare me.
"Niente". Dissi guardando in lontananza.
"Ci dai un minuto?". Chiese a Blaze e prima che mi rendessi conto di quello che stava accadendo si inginocchiò davanti a me con le mani sulle mie ginocchia.
"Sono stati due giorni lunghi per te, eh?".
"Sì e ora sono pronta per andare a casa. Non voglio più stare qui. Prima ce ne andiamo a casa e meglio è. Avrei dovuto ascoltarti. Sono stata così stupida".
"Ava, tesoro, tuo padre vuole conoscerti meglio". Sussurrò facendomi alzare la testa.
"Dimmi che non l'hai fatto?". Scattai spingendo le sue mani lontano da me e alzandomi in piedi. "Dimmi che non l'hai fatto, cazzo".
"Attenta a come parli, signorina".
"Bada a come parlo, ho 23 anni e posso dire parolacce se voglio. Tu invece. Lo odi, lo odi con passione ma un giorno torni qui e sei di nuovo nel suo letto".
"Io lo amo". Lei ruggì: "Non volevo lasciarlo tanti anni fa, ma ho dovuto farlo. Dovevo tirarti fuori, non volevo quella vita per te Ava", urlò con le lacrime che le scendevano dagli occhi.
"Non posso ascoltare tutto questo". Urlai saltando dal piccolo gradino e andandomene: "Mi hai tenuta lontana da lui per 16 anni solo perché non volevi che facessi parte di questa vita. Beh, indovina un po' mamma, sarò sempre parte di questa vita finché lui sarà mio padre".
"Che cosa sono tutte queste urla del cazzo?".
"Ava, Ava, piccola, ti prego, non andartene". Lei singhiozzava.
Fermandomi davanti al cancello, vidi mia madre cullata tra le braccia di mio padre che piangeva a dirotto. Avevo i denti stretti. Mia madre era completamente cambiata. Non era lei, era lui.
Una volta fuori dai cancelli, dove nessuno poteva vedermi, lanciai un urlo. Non volevo che andasse così, ma ero così arrabbiata che non riuscivo a fermarmi. Il nostro rapporto era sempre stato buono, ma il fatto che fosse tornata l'aveva cambiata.
"Che ne dici di tornare dentro. Tua madre è sconvolta, Ava". Sembrava essere ovunque.
"Vattene". Sibilai. "Hai detto chiaramente cosa pensi di me, quindi perché sei qui fuori a cercare di ficcare il naso dove non dovrebbe".
"Te ne accorgerai quando non avrai più una cazzo di mamma". Ringhiò allontanandosi nell'oscurità, facendomi sentire ancora più di merda con me stesso.
Le cose sembravano solo peggiorare per me. Non era così che avevo previsto che andasse. Mia madre non doveva essere qui. Dando le spalle a mia madre, respirai profondamente prima di rientrare in casa. Non volevo scusarmi con mia madre perché non pensavo di essere nel torto, ma sapevo di doverlo fare.
Guardai mio padre che mi fece un piccolo sorriso prima di farmi segno di venire da lui. Mia madre alzò di scatto la testa e scese dalle ginocchia di mio padre più velocemente di un fulmine.
Avvolgendo le sue braccia intorno a me, singhiozzò sommessamente: "Mi dispiace, piccola, non avrei mai dovuto colpirti, non avrei mai dovuto fare o dire nulla di tutto ciò. Andremo a casa tra un paio d'ore. Qualsiasi cosa tu voglia, tesoro, non posso perderti".
"Non mi hai perso mamma, non mi perderai mai". Sussurrai abbracciandola più forte.