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Capitolo 3

Accostando al ciglio della strada mi asciugai gli occhi. Ero arrabbiata, anzi, ero furiosa. Come aveva potuto fare una cosa del genere a me, alla sua stessa figlia? Tirai fuori il telefono e cercai tra i miei contatti, premendo il tasto di composizione quando trovai il numero di mia madre. Mettendo il vivavoce, aspettai che rispondesse.

"Ava, tesoro, stai bene?".

"M-mamma", singhiozzai, il mio corpo cominciava a tremare. Non credo di aver mai pianto così tanto in tutta la mia vita. Non sarei mai dovuta venire qui. Perché dovevo essere così stupida?

"Che cosa ha fatto quel bastardo?", ruggì "Ava, piccola, ti prego, parlami".

Annusando e strofinandomi il naso mi schiarii la gola: "Lui non mi vuole, mamma. Perché non mi vuole? Che cosa ho fatto di male?". Piansi desiderando di essere a casa con lei accoccolata sul divano invece di essere qui tutta sola in una città che non conoscevo. Ero ferita e arrabbiata. Quale uomo non vorrebbe conoscere la propria figlia?

"Ascoltami Ava Maria Mendez e ascoltami bene. Non hai fatto nulla di male. Non è colpa tua. Per favore, piccola, non darti la colpa e dimmi dove sei?".

Sapevo che mia madre era arrabbiata, ma sapevo che non lo era con me. Mia madre non odiava del tutto mio padre, ma questo poteva averla spinta oltre il limite e usava sempre il mio nome completo solo quando era arrabbiata.

"Non lo so, sto girando in tondo da circa un'ora. Voglio tornare a casa", farfugliai. Non avevo idea di dove mi trovassi.

"Lo so, piccola, ma non voglio che tu guidi adesso, non quando sei in questo stato. Ti prego, piccolo, trova un motel per dormire stanotte e chiamami domani quando avrai riposato un po'".

"Ok mamma, ci vediamo presto. Ti amo".

"Ti voglio bene anch'io, tesoro".

Non sapevo che avrei visto mia madre molto prima di quanto pensassi.

Gettando il telefono sul sedile del passeggero, mi guardai intorno. Niente, nemmeno il nome di una strada. Accesi il motore e cercai un posto dove andare, doveva esserci almeno una tavola calda aperta tutta la notte. Svoltando a sinistra, tirai un sospiro di sollievo quando ne individuai uno. Mi fermai fuori, presi la borsa, chiusi la macchina ed entrai.

"Notte dura?".

"Si può dire così". Dissi rimettendo il menu nel banco.

"Sei pronta a ordinare, tesoro?".

"Prendo solo un caffè, grazie", sorrisi mentre lei prendeva nota e se ne andava. Guardai lo schermo del mio telefono: erano appena passate le 21.30.

Che lunga e orribile giornata. Mentre il caffè mi veniva messo davanti, sorrisi alla cameriera. Che cosa avrei fatto? Non avevo idea di dove mi trovassi e avevo bisogno di una bella dormita. Mentre uno sbadiglio mi sfuggiva dalla bocca, spinsi indietro la sedia e mi alzai. Mi diressi verso il bancone e aspettai che mi servissero. Il locale era vuoto, ma non volevo essere scortese e gridare.

"Vuoi qualcos'altro, tesoro?".

"Potresti mettermi questo in una tazza da asporto, per favore?".

"Certo, tesoro".

Riconsegnandomi il caffè, lasciai la tavola calda. Potevo dormire in macchina? Sarebbe stato abbastanza sicuro? Camminando verso l'auto, il mio viso divenne corrucciato e il mio cuore ebbe un sussulto.

"Non dovresti essere qui fuori da sola, tesoro".

Ottimo, proprio quello di cui avevo bisogno. Come faceva a sapere dove trovarmi? La mia giornata era appena andata di male in peggio. Blaze era appoggiato al mio paraurti e fumava una sigaretta.

"L'ultima volta che ho controllato non avevo bisogno di una babysitter. Sei venuto a puntarmi di nuovo una pistola alla testa?". Sogghignai fermandomi accanto alla mia auto. Non mi fidavo di lui e, se devo essere sincero, mi spaventava a morte.

Guardandolo bene, notai il livido che copriva l'occhio sinistro e il profondo taglio che vi era sopra. Che cosa gli era successo?

I suoi occhi si trasformarono in fessure mentre mi guardava. Quel piccolo gesto mi fece fare un piccolo passo indietro. Gettando via la sigaretta, si alzò in piedi e infilò le mani nelle tasche anteriori dei jeans.

"Beh, sei proprio una streghetta chiacchierona". Sorrise facendomi impallidire il viso. "Rilassati, piccola, non ti farò del male, mi assicuro solo che tu stia bene".

Mi si spalancò la bocca. Era qui perché voleva assicurarsi che stessi bene? Certo che non stavo bene. Mi aveva puntato una pistola alla testa meno di tre ore fa. Piegando le braccia sotto il petto, mi avvicinai sentendomi più sicura questa volta.

"Perché diavolo ti interessa. Non mi conosci e se devo essere sincero vorrei che te ne andassi e mi lasciassi in pace". Girando sui tacchi mi avvicinai al lato del guidatore della mia auto e stavo per aprire la portiera quando lui mi afferrò il braccio superiore.

"Non si può fare, principessa. Ordini dell'uomo in persona, devo assicurarmi che tu sia al sicuro e non posso allontanarmi da te finché non è giorno".

Mi stai prendendo in giro. Sentendo la rabbia salire dentro di me, gli scostai la mano: "Toglimi le mani di dosso e di' a quella patetica scusa di padre che non ho bisogno di una cazzo di babysitter". Scattai aprendo la portiera dell'auto solo per vedermela sbattere addosso.

"Ascolta, piccola puttana viziata, non ti muovi da me finché non te lo dico io. Ora porta quel tuo bel culetto sul sedile posteriore della mia moto prima che ti costringa", ringhiò.

Anche se dentro di me tremavo, non glielo feci capire: "Non tornerò alla clubhouse e non puoi costringermi".

Chi pensava di essere? Una puttanella viziata? Non ero affatto viziata. Tutto ciò che ho è stato guadagnato, non mi è stato consegnato su un piatto d'argento.

"Sali su quella dannata bicicletta, Ava".

Aubreys POV.....

Come aveva potuto quel bastardo farle questo? Era quasi mezzanotte quando arrivai a New York. Ora mi trovavo fuori dalla sede del club in questa piccola città di merda. Sentivo la musica e le risate che provenivano dall'interno e questo mi faceva arrabbiare ancora di più. Ero furiosa, ma ero più preoccupata e spaventata perché Ava non rispondeva al telefono.

Scommetto che è seduto lì dentro con una puttana motociclista in grembo e si comporta da re. Raddrizzando le spalle, marciai verso la porta d'ingresso e la spalancai più forte che potevo.

"Dove cazzo è?". Ruggendo, feci calare le risate.

Questo posto non era cambiato per niente, aveva persino lo stesso odore. Un misto di olio per motociclette, pelle, sigarette e, non dimentichiamolo, sesso. Arricciando il naso, ignorai tutti gli sguardi.

"Beh, se non è la piccola Aubrey".

Stringendo i denti mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Tommy. Tommy era uno degli ergastolani di Franko e il suo migliore amico. Era qui da sempre.

"Dove cazzo è Tommy?".

"Chi è quello?". Chiese un motociclista più giovane.

"Questo fratello è la vecchia di Franko". Tommy sorrise.

L'intero locale si ammutolì, la musica si fermò.

"Vaffanculo Tommy". Sibilai avendo una buona idea di dove sarebbe stato. Probabilmente nel suo ufficio con una puttana tra le gambe.

"La puttana mi fa ancora rizzare i peli sulla nuca". Sentii Tommy borbottare.

Sentendo il sorriso formarsi sul mio volto, strizzai l'occhio al giovane motociclista e sparii attraverso la clubhouse. Quando mi fermai davanti alla porta del suo ufficio, la aprii e lui era seduto sulla sua sedia, con gli occhi chiusi e una puttana tra le gambe.

Sbattendo la porta i suoi occhi si aprirono di scatto. Mi avvicinai a lui e afferrai la puttana per i capelli. Ignorando le sue grida di protesta, la trascinai sul pavimento e la spinsi vicino alla porta.

"Esci". Ho detto di getto

Mentre questo accadeva, Franko se ne stava seduto con un cazzo di sorriso sulla faccia. Un sorrisetto come se si stesse divertendo. Raccogliendo i suoi vestiti, la ragazza uscì dalla stanza chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.

Guardando il ghigno trasformarsi in uno sguardo, ingoiai il groppo in gola. Era un uomo molto intimidatorio, ma lo conoscevo meglio di molti altri e sapevo che non mi avrebbe fatto del male.

"Che cazzo ci fai qui?". Si abbottonò di scatto le pelli.

"Come cazzo hai potuto?". Gridai: "Ava è tua figlia, Frances. Ti ammira così tanto anche se non ci sei stato, quella povera ragazza ti adora". Sentivo che le mie emozioni stavano prendendo il sopravvento e sapevo che se avessi pianto mi sarei presa a calci in culo da sola. "Hai fatto del male alla mia bambina".

"Lo so che è mia figlia. Cazzo, è uguale a me". Sospirò passandosi una mano tra i capelli. "Non le ho fatto del male, Aubrey, è solo che non sapevo come comportarmi con lei".

"Allora perché l'hai buttata fuori, perché mi ha chiamato in preda a una crisi isterica perché non la volevi, chiedendomi cosa avesse fatto di male. Perché Franko, perché l'hai trattata così?".

Poteva dire o fare tutto quello che voleva a me, ma quando si trattava di Ava io tracciavo un confine. Voleva che questo momento fosse perfetto, aveva aspettato così a lungo e sì, l'avevo fermata perché avevo paura che succedesse qualcosa del genere.

"Chi cazzo sei tu per venire qui e iniziare a dare la colpa a me per questa merda, non l'ho mai buttata fuori".

"Sei tu quello da incolpare". Ruggì la mia voce mentre sentivo gli occhi lacrimare "Quella catena che le hai messo da bambina, la porta ancora, cazzo. Le hai spezzato il cuore e sai una cosa? Sono contenta che tu l'abbia fatto, perché forse ora lei andrà avanti e si dimenticherà di te". Sogghignai.

Sbattendo le mani sulla scrivania, si alzò dalla sedia e si precipitò verso di me. In piedi davanti a me era così vicino che potevo sentire il suo respiro che mi accarezzava il viso. Era difficile credere che quello fosse l'uomo di cui mi ero innamorata, di cui ero ancora innamorata, ma di cui non riuscivo a tornare indietro.

"Ci hai sempre saputo fare con le parole, vero?". Ringhiò prendendomi il viso tra le mani "Sei sempre stato un piccolo stronzo chiacchierone".

"Non toccarmi". Scattai sbattendo le mani contro il suo petto. "Non toccarmi mai, cazzo, Franko".

Qualcosa dentro di me si ruppe e non riuscii più a tenerlo insieme. "È colpa tua". Gli schiaffeggiai il petto ancora e ancora e ancora finché non singhiozzai e se non fosse stato per le sue braccia che mi cullavano sarei crollata sul pavimento.

"Non ho idea di dove sia la mia bambina. Non risponde al telefono. E se le fosse successo qualcosa?".

"Cara, rilassati, c'è il mio vicepresidente che veglia su di lei, è al sicuro". La sua voce era dolce e rilassante ed era da tanto che non la sentivo così.

"Quindi, visto che il tuo vicepresidente la sorveglia, è al sicuro. Come fai a sapere che è al sicuro quando eri qui con la tua puttana?". Ringhiai sentendomi invadere dalla rabbia.

"Vuoi il mio cazzo, Aubrey?". Ringhiò afferrandomi per le spalle.

Sentendo il rossore formarsi sul mio viso, lo fulminai come meglio potevo: "Toglimi le mani di dosso". Lottando per liberarmi dalla sua presa, mi arresi quando le sue braccia si strinsero e prima che mi rendessi conto di cosa stava succedendo le sue labbra erano sulle mie e io ricambiavo il bacio.

Sentendo il formicolio impossessarsi del mio corpo come sempre quando mi baciava, gli avvolsi le braccia intorno al collo e cominciai a tirargli i capelli. Sentendo le sue mani vagare per il mio corpo, i miei occhi si aprirono di scatto quando mi tirarono su il vestito in modo che fosse piegato in vita.

"Che cosa stai facendo?". Chiesi tra un bacio e l'altro. Dio, era così sbagliato, ma dannazione se non mi sembrava giusto. Sentivo di appartenere alle sue braccia, ma non ero tornata qui per questo.

"Riprendermi ciò che è mio". Ringhiò prima di schiantarsi di nuovo con le labbra contro le mie.

Mettendo le mani sul mio sedere, mi sollevò e le mie gambe si avvolsero intorno alla sua vita. Mi portò in braccio e mi mise sul divano mentre lo guardavo sbottonarsi la pelle. I miei nervi erano tornati a farsi sentire, non ero stata con un uomo da così tanto tempo, anzi, lui era stato l'ultimo con cui ero stata.

Si mise tra le mie gambe e si inginocchiò. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui e dalla sua mano che stava risalendo verso la mia zona intima. Trascinando un lungo dito sulla mia figa, mi morsi il labbro e gemetti. Sapevo di essere bagnata e sapevo che il bastardo lo avrebbe adorato.

"Dannazione, piccola, sei fradicia. Dimmi quanto lo vuoi, tesoro". Sentendo il suo dito scivolare sotto le mutandine mi bloccai del tutto. Non potevo farlo, era passato troppo tempo e avevo paura di aver dimenticato cosa fare.

"Tesoro, cosa c'è che non va?". Sussurrò lasciando cadere le mani dal mio corpo.

"È passato un po' di tempo". Sussurrai sentendo il calore salire sulle mie guance. Cazzo, mi sembrava di avere di nuovo sedici anni. Lui in ginocchio e io che fremevo per il nervosismo e la paura.

"Per quanto tempo Aubrey?". La sua voce era severa, ma non riuscivo a guardarlo. Non potevo dirgli che era l'ultimo uomo con cui ero stata. Potevo?

"Non hai bisogno di...".

"Per quanto tempo, cazzo, donna?". Ringhiò mettendomi le mani sotto il sedere e tirandomi verso di lui.

"Non c'è bisogno che te lo dica, cazzo". Lo fulminai con lo sguardo. Perché faceva sempre uscire la puttana che era in me? Mi faceva sempre arrabbiare e sentire frustrata, ma Dio, mi faceva sempre desiderare. Fin dalla prima volta che avevo posato gli occhi su di lui.

Guardando i suoi occhi che diventavano fessure, non riuscivo a capire la sua prossima mossa. Il mio corpo desiderava essere toccato. Volevo che facesse l'amore con me, ma il mio orgoglio non mi permetteva di dirglielo. Mordendomi il labbro inferiore, vidi la lussuria che nuotava nei suoi occhi e prima che potessi fare o dire qualcosa era dentro di me. Gridando di dolore e di piacere, la mia mano scattò fuori afferrandosi al lato del divano.

"Cazzo" gemette "Sei stretta".

Era dentro di me ma non aveva ancora iniziato a muoversi. Lo presi come un modo per farmi abituare alle sue dimensioni. Alzai lo sguardo verso di lui, che mi stava guardando.

"Quanto tempo, tesoro?".

Sospirando, mi alzai un po' a sedere in modo da potermi appoggiare sui gomiti. Non volevo dirglielo, ma sapevo che non avrebbe lasciato perdere e che non avrebbe iniziato a muoversi finché non glielo avessi detto.

"Tu" sussurrai osservando i suoi occhi allargarsi e la sua bocca aprirsi un po' "Quella volta in prigione, quando in qualche modo sei riuscito a far sì che ciò accadesse. Sei l'ultima persona con cui sono andata a letto. Per quanto possa sembrare assurdo, non ho mai ritrovato quella connessione".

Osservando il sorriso che si formava sul suo volto, cominciò a muoversi dentro di me: "Bene! Tu mi appartieni, tesoro, e sono felice che tu te lo sia ricordato".

"Stronzo", ringhiai, ma presto si trasformò in un gemito quando iniziò a prendere il mio corpo nei posti in cui solo lui poteva farlo.

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