Capitolo I
Sono Piero De Nuptis, figlio unico di due farmacisti napoletani. Porto il nome di mio nonno, anche se con una leggera differenza. Lui si chiamava Pietro.
A mio padre non piaceva, ma non potendo, o non volendo, che è lo stesso, infrangere la legge non scritta di tramandare i nomi, trovò una soluzione diplomatica, nonché colma di equilibrio.
Il nonno, uomo comprensivo, accettò di buon grado e alla fine mi fu imposto un nome simile al suo, ma addolcito. Se questo abbia influito sul mio carattere non lo so. Secondo me la regola del nomen omen è una sciocchezza. Che io sia fin troppo amabile è un dato di fatto, però.
Ho avuto un’infanzia serena se si esclude la mia difficoltà nell’accettare di essere (ricchione?) attratto dai maschi. In realtà ero allettato dal cazzo, degli altri, ovvio.
Scoprii questa mia inclinazione un tiepido pomeriggio d’estate quando, a letto con la febbre, mi misi a giocare con una biglia di vetro, non quella piccola, però. Era grandissima.
Ero solo in casa, come sempre. I miei lavoravano dalla mattina alla sera, mi abbassai gli slip e iniziai a far scivolare la pallina di vetro sulle natiche. Poi la cominciai a sfregare sul buco, il contatto mi piacque. Assai.
Ero eccitato, ma non ne avevo la consapevolezza. A dieci anni, o poco più, non è possibile vivere, e comprendere, certe pulsioni. Bisogna attendere che la natura termini lo sviluppo.
In ogni caso quella sensazione mi accompagnò a lungo, insieme alla certezza di essere refrattario al sesso femminile e che sarebbe stato complicato mettere in pratica la mia sessualità in una città come la mia. Soprattutto negli anni settanta.
Ma qualche anno dopo, nel buio di una sala, ebbi la conferma di quanto mi piacessero i maschi e di come il turbamento potesse spingermi a compiere azioni pericolose.
Andai a cinema con tutta la mia comitiva. Prima di fare i biglietti avevo adocchiato un ragazzo, Pompeo, che indossava calzoni bianchi attillati, ci conoscevamo poco, non avevamo mai avuto modo di parlare. Mi attrasse la dolcezza del suo volto, e il candore dei pantaloni.
Quando entrammo nella sala lui scelse la prima poltroncina sulla sinistra della fila centrale, presi posto in quella accanto.
Appena si spensero le luci mi appoggiò una mano sulla gamba e la strinse.
«Mi hanno detto che il film parla della fine del mondo» disse per motivare il gesto. In effetti doveva aver capito qualcosa, il suo comportamento sapeva d’invito, che accolsi. Appena le luci si spensero per dare spazio alla proiezione dello spettacolo, diedi il via al nostro.
Allungai la mano sinistra e gliela poggiai in mezzo alle gambe. Lui subito abbassò la cerniera, con studiata lentezza, per evitare rumori inopportuni. Ma non lo tirò fuori, era troppo pericoloso, qualcuno avrebbe potuto vedere. Allora misi la mano sinistra sotto i suoi slip e la chiusi, avvinghiando anche le palle.
Sentendo la sua erezione capii che era eccitato, io non stavo nella pelle e il suo cazzo non stava nelle mutandine, allora lo allungai verso destra, per accarezzarlo meglio. Ma lui mi tolse la mano, aveva notato che una persona dietro di noi era attratta da quella scena molto più della pellicola, sentii la voce arrabbiata del padrone del cazzo che avevo maneggiato con cura, ma meno di quanto avessi desiderato.
«Ma come lo guardi ’sto film?»
Era evidente che qualcuno seduto dietro di noi si era goduto il fuori programma. Non mi preoccupò la consapevolezza che qualcuno ci avesse visti. Ero arrabbiato perché l’emozione di stringere un cazzo duro era svanita troppo presto.
Ricordo il tremore incontrollabile che mi pervase. Erano brividi caldi, avvolgenti. Magnifici. Non avrei mai più provato quella sensazione. Almeno fino a oggi. Domani, forse? Non credo.
Certe sensazioni, figlie del desiderio, sono destinate a essere vissute una volta sola. Se si ripetessero perderebbero la loro magia.
In ogni caso non ci fu un seguito. Non lo vidi più. Ignoro le cause che impedirono alle nostre strade di incrociarsi di nuovo. L’unico ricordo tangibile di quel breve istante di vizio fu il profumo intenso del cazzo che aveva impregnato il palmo della mia mano. Un odore aspro, quasi sgradevole, ma per me delizioso. Lo annusai a lungo, fino a quando la fragranza non svanì del tutto.
Il ricordo di quell’episodio mi ha accompagnato per mesi, che poi sono diventati anni. Crescevo nella speranza di incontrare Pompeo un’altra volta e che la mia aspirazione a essere posseduto da un maschio la smettesse di essere un desiderio e diventasse reale.
Quando ero solo a casa, cioè quasi sempre, mi mettevo di fronte allo specchio e ammiravo il mio culo. Avevo, ho, un fondoschiena pronunciato. Molto più femminile di tantissime donne.
Me lo accarezzavo e speravo che qualcuno, prima o poi, ci affondasse dentro. E non capivo che se davvero vuoi che qualcosa accada non basta desiderarlo. Ci devi mettere del tuo. Ma io ero combattuto tra l’aspirazione e il timore che la mia condotta diventasse oggetto di chiacchiericci e giungere alle orecchie di mio padre. E della di lui consorte.
Al tempo non sapevo che non sarebbe mai accaduto per il semplice fatto che loro erano una coppia rispettata fino all’eccesso. Non solo perché farmacisti.
Il dottore De Nuptis era, infatti, consigliere al comune di Napoli. Faceva parte della Democrazia Cristiana. Scelta scontata per uno che possedeva un equilibrio eccezionale, come aveva dimostrato nella scelta del mio nome.
Nessuno si sarebbe mai azzardato a spettegolare sul figlio, per venerazione e interesse, infatti tutti quelli che lo conoscevano pensavano che prima o poi li avrebbe potuti aiutare grazie alla sua influenza politica e alle sue conoscenze, che erano notevoli. Questo l’ho capito dopo, però.
Al termine delle medie, ormai quattordicenne ma ancora in attesa di diventare uomo, un pomeriggio autunnale ero in compagnia di un amico d’infanzia. Attilio, un bel ragazzo, biondo e con gli occhi chiari.
Stava per piovere quindi decidemmo di andare a casa per ascoltare un po’ di musica. Io avevo un favoloso impianto stereo nella mia camera e a lui piaceva il rock quanto me.
Ascoltammo, a basso volume, un disco dei Pink Floyd, io steso sul letto e lui seduto al mio fianco. A metà ascolto si avvicinò e si coricò su di me. Quando cominciò a passare con le labbra tra gola e collo mi intrigò. Anche perché percepivo il suo respiro accelerato.
Poi volle che mi voltassi. Iniziò a sfregarmi il sedere col bacino. Il mio silenzio risuonò a consenso, quindi cercò di abbassarmi i jeans, che si bloccarono sul più bello. Riuscì a scoprire solo la parte superiore del sedere.
Attilio, emozionato, eccitato, o tutte e due le cose, si sbottonò i pantaloni poi abbassò la cerniera. Il rumore mi sembrò forte come un tuono.
Fu allora che, senza un motivo logico, andò a chiudere la porta della camera. Precauzione inutile visto che eravamo soli in casa. Quando percorse il tratto a ritroso capii che mi aveva concesso il tempo di slacciare i pantaloni e di osservare il suo cazzo in bella vista.
Non so perché ma non feci niente, e aspettai lui, che si ricompose e riprese posto sul bordo del letto.
Ci alzammo e iniziammo a parlare d’altro fino all’ora di cena, quando mi disse che doveva tornare a casa. Ancora mi sforzo per cercare di capire chi dei due sia stato più stupido.
Mi rimproverai, pensai che avrei dovuto sbottonarmi, che certe occasioni vanno prese al volo, che avevo messo la testa sotto la sabbia.
In effetti era vero, abbassarmi i pantaloni da solo sarebbe stato un gesto indecoroso, ma perché farselo mettere nel culo se te li cala l’altro è più stimabile?
Questi furono i miei pensieri per tutta la sera e nei giorni a venire. Ardevo dal desiderio di offrire il mio sedere a un maschio ben attrezzato e quel giorno sembrava non arrivare mai.
Una cosa però mi fu chiara, in certi momenti particolari ragionavo da femmina, motivo per il quale toccava a lui spogliare me.
Con l’esperienza di oggi so che se il maschio ha difficoltà ad aprire il reggiseno, la donna provvede da sola senza esitare, giusto per non far spegnere la fiamma del desiderio.
Ma all’epoca ero privo di conoscenze in materia, conclusi ogni riflessione e mi avvicinai allo specchio, abbassai i pantaloni, mi girai, inquadrai il mio stupendo sedere e sussurrai:
«Attilio, guarda che ti sei perso.»
Me lo accarezzai a lungo, sognando il giorno in cui qualcuno mi avesse preso. Nel più profondo di me sapevo di possedere una spiccata sensualità. Che avrebbe stuzzicato sia i maschi arrapati che le ragazze lo avrei scoperto col tempo.